L’antico genocidio che imbarazza la Germania

Di Federica Tourn e Claudio Geymonat

(Left, 30/09/2017)

Questa storia comincia con un teschio.

1907. Un teschio su una mensola, dentro una canonica, fra Bibbie e libri in tedesco, poche suppellettili, stuoie sul pavimento, un crocefisso e i paramenti appesi al muro. Fuori, la terra secca e farinosa della Namibia, dove il deserto ha lasciato da tempo lo spazio all’altopiano: pochi edifici, che vorrebbero portare nel Nuovo Mondo la grazia spensierata del neogotico e dell’art nouveau, una stazione ferroviaria appena inaugurata e la Christuskirche luterana che svetta in cima a una collina con i suoi colori di biscotto e zucchero. Intorno, le case basse dei coloni e più in là – rigorosamente separate dal mondo dei bianchi – le baracche degli indigeni.

Windhoek è cresciuta all’incrocio dei venti, territorio conteso fra Herero e Nama, percorso da sorgenti calde che ne fanno un punto cruciale per le coltivazioni; non è un caso che proprio da qui, nel 1890, inizi formalmente il dominio della Germania sulla Namibia, con il contingente del maggiore Curt Von François a posare la prima pietra del forte, l’Alte Feste, a protezione dei nuovi insediamenti. Primo governatore della colonia è un tal Heinrich Göring, padre di quell’Hermann Göring che sarà poi il braccio destro di Hitler. A capo del contingente militare, per tenere a bada le popolazioni locali che si ribellano all’esproprio delle terre, arriva con 14mila uomini il generale Lothar von Trotha, reduce dai successi in Africa orientale e in Cina e noto per non andare troppo per il sottile. Von Trotha nell’estate del 1904 sconfigge gli Herero nella battaglia di Waterberg e ordina ai suoi uomini di non avere pietà nemmeno delle donne e dei bambini: i superstiti vengono spinti verso il deserto del Kalahari e lasciati morire di sete, i pochi superstiti catturati e rinchiusi nei Konzentrationslager, dove sono sottoposti a torture, stupri, esecuzioni sommarie; per malattie, stenti e violenze ne muoiono a migliaia. Nel più grande, a Shark Island, l’antropologo Eugen Fischer fa esperimenti su cavie umane, a cui partecipa anche l’italiano Sergio Sergi. Oltre l’80% della popolazione Herero viene eliminata in soli tre mesi, tra l’agosto e l’ottobre 1904; i Nama seguiranno di lì a poco la stessa sorte, morendo come mosche nei lager, dove soltanto un prigioniero su due sopravvive. Come souvenir e prova dell’efficienza teutonica, trecento teschi sono inviati in Germania. E’ un genocidio, il primo della storia del Novecento.

«Sono le prove generali di cosa accadrà mezzo secolo dopo: campi di concentramento, studi sulla razza, eliminazione sistematica di intere etnie. Hanno testato su di noi ciò che avrebbero poi messo in opera con gli ebrei». A parlare è Ester Muiinjangue; lei e Ida Hoffman sono le portavoci dei loro popoli, i Nama e gli Herero, e da anni si battono perché sia resa giustizia. «Quest’anno è venuto in visita a Windhoek il delegato pontificio. L’ho seguito e, fra il panico degli accompagnatori che volevano bloccarmi, ho chiesto di potergli parlare. Gli ho detto che il papa si è sbagliato: se bisogna stabilire un tragico primato, allora siamo noi ad aver patito il primo sterminio di massa del novecento, non gli armeni. Ora anche papa Francesco lo sa», aggiunge Ida Hoffmann. Il suo cognome sigilla un’era: «mia nonna – spiega – fu costretta a cambiarlo, ad acquisirne uno imposto dagli invasori». Che da queste parti hanno il colore biondo dei capelli e gli occhi azzurri dei coloni, le teste di ponte dell’Impero dell’Africa tedesca del sud-ovest: trent’anni soltanto, un soffio nel libro della storia, un’eternità per le dodici tribù che si dividevano il nulla che c’era da dividere. L’uomo bianco sa bene che cosa può invece sfruttare: non solo le terre fertili lungo l’Oceano e nel nord del paese, ma soprattutto i ricchi giacimenti di diamanti e rame nel sottosuolo.

Oggi lo Namibia chiede che la Germania riconosca ufficialmente il genocidio e sia disponibile a un risarcimento. Non è tutto: vuole anche la restituzione dei teschi delle vittime, minuziosamente catalogati nell’opera di Sergi, Craniologia Hererica, e per generazioni esibiti nelle università tedesche, dove Fischer negli anni ’30 li ha usati a beneficio dell’eugenetica nazista per indottrinare i suoi studenti, fra cui anche il futuro boia di Auschwitz Josef Mengele. Teschi che diventano anche sinistri soprammobili a Windhoek, come nella canonica di padre Ziegenfuss, da cui ha preso inizio questa storia, spia di una noncuranza, se non addirittura di uno spirito di sopraffazione decisamente poco fraterno che ha segnato l’evangelizzazione nelle colonie. Ma che ne sanno i cristiani d’inizio ‘900, cresciuti a devozione risvegliata e spirito missionario, del culto degli antenati delle tribù africane o della violenza profonda insita nel trafugamento dei teschi?

Alois Ziegenfuss, è un prete missionario e nel periodo fra il 1904 e il 1907 diventa cappellano militare: è testimone della guerra contro gli Herero e i Nama, di cui scrive in un diario; il suo impegno a fianco dei colonizzatori e fra gli indigeni gli valgono una popolarità che lo spinge a restare anche dopo il ritiro dei tedeschi alla fine della prima guerra mondiale, quando la Namibia passa all’Impero Britannico, che la affida all’Unione Sudafricana, poi Repubblica Sudafricana dal 1961, sotto il cui controllo rimarrà di fatto fino all’indipendenza, nel 1990. La riconoscenza per pater Bokklebein, come viene chiamato in afrikaneer, è testimoniata ancora oggi dalla Ziegenfuss strasse a Windhoek. «Padre Ziegenfuss aveva un teschio. C’era un teschio in casa sua, capite? Un teschio Herero o Nama, ricordo della guerra. Non l’hanno punito per questo, anzi, gli hanno addirittura dedicato una strada. Questo la dice lunga sulla posizione della chiesa cattolica durante il genocidio», denuncia Ida Hoffmann, che nel 2011 è andata personalmente a Berlino per riprendere venti teschi della sua gente, ritrovati fra Germania e Svizzera.

Cattolici e protestanti che siano, l’atteggiamento verso gli indigeni è abbastanza ecumenico. A Otjimbingwe, nella più vecchia chiesa protestante di Namibia, decine di indigeni vengono assassinati durante il culto al momento dell’invocazione, quando gli occhi sono chiusi in segno di raccoglimento. Lo racconta Ester Muiinjangue nel documentario Skulls of my people: «per questo prego sempre con gli occhi aperti», chiosa.

La storia della cappellania militare in Namibia, e più in generale delle missioni cristiane, soprattutto protestanti, non è edificante. Oggi la Chiesa evangelica in Germania fa confessione di peccato per non aver difeso le popolazioni locali dallo sterminio, ma per troppi anni è stato rimosso il ruolo attivo che i missionari hanno avuto nel fiancheggiare le truppe del Kaiser nella persecuzione dei nativi. Come documenta Glen Ryland in Stories and mission apologetics: the Rhenish mission for wars and genocide to the nazi revolution, i missionari, spesso armati, allestiscono e poi aiutano i militari a far funzionare i campi di concentramento, mantenendo e utilizzando a proprio vantaggio la divisione razziale fra i diversi gruppi tribali. Di più: il coinvolgimento dei missionari nell’impresa militare tedesca segna di fatto l’inizio della distruzione degli Herero attraverso l’incarcerazione; i pochi che riusciranno a sopravvivere ai campi saranno costretti a lavorare nelle fattorie dei coloni, perpetuando per generazioni una condizione di schiavitù, poi avallata dall’apartheid sancito dal governo del Sudafrica. In ultimo, la sofferenza viene vista come un passaggio per arrivare alla “necessaria” conversione di massa al cristianesimo.

 

E di sofferenza non ne è mancata da queste parti: in nessun posto come in Namibia puoi vedere ancora oggi l’invisibile muro che separa i bianchi dai neri, quasi una Via col vento del ventunesimo secolo. A Windhoek la popolazione nera vive ancora quasi tutta nell’estrema periferia, a Katutura – in lingua Herero, letteralmente “Il posto in cui la gente non vuole vivere” – il ghetto creato a tavolino nel 1961 dall’amministrazione coloniale sudafricana. Migliaia di persone vengono spostate a forza dalla zona sud della città, dove sono ormai troppo a contatto con i bianchi; proteste e manifestazioni costano 11 morti e 44 feriti. Anche in Katutura si replica immediatamente la divisione in ghetti e etnie: Ovambo, Damara, Nama, Herero, San e gli altri, tutti qui, accalcati ma separati. Gli odori sono forti, ad ogni angolo si arrostiscono carne e verdure su braci improvvisate, piccoli mercati si nascondono sotto teloni di plastica a ripararsi dal sole, a pochi metri dal cimitero, che di nuovo l’ironia africana ha chiamato Golgotha. Terra e croci, croci ovunque. Le tombe di bambini sono in numero impressionante. Del resto la Namibia è la nazione con più malati di Aids al mondo e un bambino su cinque nasce sieropositivo.

L’unico edificio a più piani di Katutura è l’ospedale, uno scheletro di otto piani, che qui in mezzo paiono almeno il triplo. Alle finestre mancano i vetri, un solo ascensore funziona a intermittenza, i letti sono senza lenzuola: quando ci sono, visto che nel reparto pediatrico ci si accontenta di materassi sul pavimento. A pochi chilometri invece è il bianco a farla da padrone, quello delle villette dei geometrici quartieri abitati dal pugno di europei che rimane quaggiù, immobili di fronte alla storia che ha cambiato addirittura secolo. Il quartiere, sorvegliato a vista, si chiama Klein Windhoek, piccolo Windhoek; come a dire un luogo a sé, un’enclave dove la storia pare essersi fermata. I bianchi d’Africa sono meno di centomila su due milioni e mezzo di persone che vivono in Namibia, la nazione meno densamente abitata al mondo dopo la Mongolia. Ma sono loro ad avere in mano oltre l’80% delle terre. In Parlamento  invece siedono solo neri: ai bianchi non interessa il potere politico, hanno tutto il resto. Potere che da quasi trent’anni è saldamente in mano alla Swapo, il partito che ha liberato il Paese dal giogo sudafricano, come testimonia il massiccio parallelepipedo che ospita il museo dell’Indipendenza. Due ascensori panoramici accompagnano i visitatori per cinque piani, fino al ristorante in cima, con tre terrazze che consentono di abbracciare tutto l’orizzonte. Sulla spianata ai piedi del museo, una statua enorme del primo presidente Sam Nujoma, mitologico eroe della liberazione, santificato ancora in vita, oggi arzillo novantenne. Costo? Milioni di dollari, finite nelle casse della Corea del Nord, le cui aziende hanno vinto il bando per la realizzazione dell’opera. Sarà per questo che tutti i soldati degli epici dipinti e le statue belliche hanno occhi a mandorla, compreso lo stesso Nujoma, uno sguardo che sembra guizzare beffardo, come il destino di questo paese così ricco di materie prime e così depredato.

Vogliamo parlare dei diamanti? In Namibia vengono fuori non solo dalla terra ma anche dal mare. La Debmarine Namibia, una joint venture fra la multinazionale De Beers e il governo, è l’unica compagnia al mondo a dragare pietre preziose nelle profondità dell’oceano: la compagnia ha prodotto più di un milione di carati soltanto nel 2016. Per non parlare dei milioni di marchi riversati dalla Germania negli anni, tributo pagato per tacitare un mai dichiarato senso di colpa e che ha fatto della Namibia lo stato beneficiario delle maggiori donazioni tedesche al mondo a partire dall’indipendenza fino ad oggi. Dal 1990 la Germania ha versato 500 milioni di euro nelle casse namibiane, aiuti che dal 2005 sono calati e si attestano a 11,5 milioni all’anno. A ciò si aggiungono altri 20 milioni di euro negli ultimi dieci anni per le “Iniziative per la riconciliazione”: musei, pozzi, centri culturali, scuole. E’ difficile però rintracciare anche solo l’ombra di questa ricchezza nelle strade miserabili di Katutura. «Soldi noi non ne abbiamo visti – conferma Muiinjangue – A Windhoek delle sovvenzioni tedesche non è arrivato niente, basta guardarsi intorno per capirlo. E questo perché i leader Swapo sono tutti di etnia Ovambo e il governo ha buon gioco a privilegiare i suoi. Le terre Ovambo sono al nord, un misero 6% della nazione, ed è lì che finiscono i finanziamenti».

Per questo ora i discendenti degli Herero e dei Nama vogliono sedersi al tavolo delle trattative per il risarcimento del genocidio e non accettano che sia il governo da solo a negoziare: «la Germania dopo la seconda guerra mondiale ha discusso le condizioni con lo stato di Israele, certo, ma anche con i rappresentanti di 23 associazioni ebraiche. Lo stesso deve fare con noi oggi», chiosa Ester Muiinjangue, perché sia chiaro che non si faranno tagliare fuori un’altra volta. Non a caso It can not be about us without us (non potete parlare di noi senza di noi) è lo striscione che apre i loro cortei.

Il 5 gennaio 2017 il capo supremo degli Ovaherero Vekuii Rukoro e il presidente dell’associazione delle autorità tradizionali dei Nama David Frederick hanno deciso di avviare un procedimento legale al tribunale di New York per ottenere una riparazione formale dello sterminio. La causa è stata presentata negli Stati Uniti per via dell’Alien Tort Statute, una legge americana del 1789 spesso invocata nei casi di violazioni dei diritti umani, anche all’estero. Il 16 marzo 2017 il giudice del tribunale ha accettato di dare corso al procedimento ma la seconda udienza, il 21 luglio, è andata buca per l’assenza dei rappresentanti della parte sotto accusa, che si attacca a cavilli procedurali per non comparire in giudizio. La Germania si appella alle norme che impediscono a tribunali stranieri di citare in giudizio i paesi per le loro attività all’estero, anche belliche, mentre i richiedenti si rifanno invece alla risoluzione Onu sulle minoranze indigene del 2007, sottoscritta anche dalla Germania e che fra l’altro norma le modalità di restituzione delle terre alle popolazioni indigene, e qualora non sia possibile, prevede un indennizzo.

Per ora i tedeschi nicchiano: se un riconoscimento formale del genocidio è avvenuto da parte del Bundestag nel 2015 su iniziativa di Frank-Walter Steinmeier, allora ministro degli Esteri e oggi presidente della Repubblica Federale tedesca, altra cosa è pagare un risarcimento, che oltretutto costituirebbe un precedente e aprirebbe nuovi contenziosi fra ex colonie ed ex paesi colonizzatori, creando un imbarazzo (e un onere) che l’Europa non ha certo voglia di sostenere. La prossima udienza è fissata per il 13 ottobre 2017, si vedrà se in presenza della Germania o no. «Nessuno ci metterà a tacere. Se avessimo dovuto fare quello che si aspettavano da noi, saremmo ancora ad allacciare le scarpe agli uomini», commenta Ida Hoffmann senza scomporsi. «Ho ripetuto ovunque la mia testimonianza, da Windhoek a Berlino; ho raccontato la storia ai miei nipoti, che ora la ripetono fieri a scuola. Finché ci sarà un Herero o un Nama su questa terra, non ci arrenderemo mai». Nessuno chiuderà più gli occhi finché i teschi degli antenati non saranno tornati tutti a casa.

 

 

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