Di Federica Tourn (Il Reportage, 5/7/2015)
«Nessuno voleva una repubblica a maggioranza musulmana nel cuore dell’Europa. Hanno sciolto i cani e dopo, quando tutto era finito, hanno tirato il guinzaglio: rispetto a Croazia e Slovenia, in Bosnia hanno fatto terra bruciata. Il fattore musulmano non garbava all’Occidente».
Arrivi alla frontiera su una strada stretta, tutta curve, deserta. Le montagne sono dolci e coperte di boschi ma la demarcazione fra Serbia e Repubblica Srpska la fa innanzitutto il silenzio: di qua l’attività quotidiana di paesi immersi in una nebbia di carbone, di là i resti di villaggi devastati dalla guerra, un campo da calcio abbandonato, tetti e pareti crollate, i muri bucati dai proiettili, e ovunque cimiteri. Intorno ricrescono gli alberi, incuranti delle mine che nessuno si è preoccupato di togliere. Dopo quaranta chilometri di discesa verso la valle, la città appare come un’inquietante alternanza di case, alcune sfigurate dalle bombe e altre riverniciate a colori shocking, lungo l’unica via che attraversa il centro: due bar, un vecchio albergo e una fiammante sede Unicredit, su cui troneggia la chiesa ortodossa. Benvenuti a Srebrenica, teatro del primo genocidio che l’Europa ricordi dopo quello nazista, avvenuto sotto gli occhi e con la complicità delle Nazioni Unite. Sembra successo ieri, e invece sono passati vent’anni.
Nello stadio allestito a lager separano le madri dai figli, le mogli dai mariti; a dodici anni i ragazzini sono già considerati adulti, ammassati sulla strada polverosa, sotto un sole impietoso, insieme agli altri maschi, cenciosi, gli occhi scavati da tre anni di assedio, di fame e di paura, persa ormai ogni speranza di salvezza. Sembra un déja-vu dell’orrore, una replica dei campi di sterminio in un angolo sconosciuto dei Balcani alle porte d’Europa, quando a poche centinaia di chilometri sull’Adriatico i bagnanti si allungano indifferenti sotto gli ombrelloni mentre le radio passano a ripetizione Boombastic di Shaggy. E’ l’11 di luglio 1995 e a Srebrenica, Bosnia, sta per andare in scena l’atto finale di una guerra che verrà definita “etnica”, “religiosa”, “civile” ma che è soltanto l’ultima mossa di risiko sullo scacchiere delle potenze riunite al Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Anche l’andare in scena non è una metafora: dietro la testa rasata del comandante Ratko Mladić, che guida l’esercito serbo-bosniaco alla presa della città e che darà l’avvio allo sterminio sistematico di diecimila musulmani bosniaci, c’è sempre la telecamera – bisogna pur documentare la gloria della Grande Serbia per i posteri! – che lo riprende mentre sorride, distribuisce caramelle ai bambini, rassicura i civili che se consegneranno le armi nessuno farà loro del male. Mladić capisce subito la paura del comandante olandese delle forze di pace, Ton Karremans, e gioca al gatto col topo: «hai provato a farmi bombardare?», chiede. «No, no, non decido io, le decisioni le prendono a Sarajevo e a New York», risponde quello. Mladić conciliante gli offre una sigaretta e scherza: «tranquillo, non sarà mica l’ultima».
Invece Karremans sono giorni che implora i suoi superiori di mandare gli aerei da Aviano a dare manforte a quel contingente di quattrocento ragazzi impreparati, con la consegna di fare la guardia a un’enclave in cui non doveva succedere niente e invece si è scatenato l’inferno. Ma l’attacco dall’alto non arriva.
Mladić sa. E lo sanno tutti a Srebrenica, ormai. Sanno di essere stati traditi e poi abbandonati. Anche il loro rambo, il musulmano Naser Orić, l’ex capo della polizia, che con la sua banda risponde alle violenze degli assedianti facendo incursioni punitive contro i serbo-bosniaci dei villaggi vicini, ha ricevuto l’ordine di lasciare la “zona protetta” – Risoluzione Onu n. 819/93 – al suo destino.
Oggi la “fabbrica dell’orrore”, quartier generale dell’Unprofor, la Forza di protezione delle Nazioni Unite, ospita un museo della memoria, ma le stanze dove vivevano i soldati olandesi non sono state toccate: le pareti sono il diario dello smarrimento di ragazzi che a malapena sanno dove sono finiti, tra machismo da barzelletta e aggressività nazionalista, razzismo e ignoranza. Graffiti, fumetti, ragazze nude e micky mouse, simbolo macchietta di ogni contingente militare che si rispetti; ci sono insulti alle donne bosniache – che in molti non sdegnavano di stuprare, all’occorrenza – ma anche i giorni che mancano alla licenza puntigliosamente sbarrati, uno dopo l’altro, come sui muri di una prigione. Queste erano le “forze di interposizione” che avrebbero dovuto garantire la sicurezza del cul de sac in cui l’Onu aveva ficcato 60mila persone, quel che restava dei musulmani della Bosnia orientale.
«Nessuno voleva una repubblica a maggioranza musulmana nel cuore dell’Europa. Hanno sciolto i cani e dopo, quando tutto era finito, hanno tirato il guinzaglio: rispetto a Croazia e Slovenia, in Bosnia hanno fatto terra bruciata. Il fattore musulmano non garbava all’Occidente». Diego Fulcheri dopo la guerra ha fatto parte della Sfor, la Forza di stabilizzazione della Nato, incaricata di difendere gli accordi di Dayton del ’95, che hanno diviso in due lo Stato: da una parte la Repubblica Srprka serbo-ortodossa e dall’altra la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, abitata da una maggioranza di musulmani e da una minoranza di croati. Srebrenica, ultimo sfregio dopo lo sterminio, è stata destinata alla Repubblica Srpska. Quando cercavano Mladić per portarlo alla sbarra al Tribunale dell’Aja, Fulcheri faceva ricognizioni con il suo elicottero sull’ex Jugoslavia. «Più di una volta ci hanno mandato a controllare la sua casa di Pale, sopra Sarajevo; dicevano che era lì ma non ci davano l’ordine di intervenire». L’hanno preso, infine, il “boia di Srebrenica”, dopo ben 15 anni di latitanza. Insieme ai suoi, ci aveva messo due giorni a uccidere tutti i musulmani bosniaci, giorno e notte, sistematicamente; era andato anche a reclamare i trecento che si erano rifugiati nel compound dell’Unprofor, insieme a cinquemila donne e bambini. I caschi blu, il 13 luglio, glieli consegnarono, pur sapendo bene a cosa andavano incontro, e per questo l’Olanda è stata ritenuta responsabile da un tribunale dell’Aja nel 2014. Quegli stessi soldati alla fine della guerra avevano ricevuto dal loro governo e dagli Stati Uniti una medaglia “per il coraggio dimostrato” a Srebrenica. Non uno l’aveva rifiutata.
Ora forse qualcosa sta cominciando a cambiare: è del maggio scorso la presentazione alla Camera dei rappresentanti del parlamento bosniaco di una richiesta di ammissione del genocidio di Srebrenica, già riconosciuto dal Tribunale dell’Aja nel 2004. Si avvicina il ventennale e forse qualcuno, a Sarajevo, cerca di non fare troppe brutte figure.
«La municipalità di Srebrenica contava 20mila abitanti prima della guerra, oggi sulla carta sono 5mila ma in realtà ci vive appena un migliaio di persone», conta laconica Azra Ibrahimović. Azra si occupa dei progetti per lo sviluppo del territorio dell’ong italiana Cesvi. Uno degli obiettivi principali del suo lavoro è far stare insieme i ragazzi di religione diversa. «Le ferite sono ancora aperte – dice – perché le divisioni tra le famiglie sono forti e i bambini ne risentono. Anzi, spesso è la generazione dei figli a non riuscire a perdonare quello che i genitori hanno subito e che cercano di dimenticare». E aggiunge: «forse dovremmo fare come in Sudafrica e mettere uno di fronte all’altro carnefici e vittime».
Azra è originaria di Skelani, a pochi chilometri da qui; la sua storia è decisamente straordinaria. A 13 anni, all’inizio della guerra, è stata separata dal padre e dal fratello ed è finita con la madre e le altre donne in un campo profughi nella vicina Tuzla; poi, volendo a tutti i costi frequentare le magistrali, ha convinto la madre a lasciarla andare a Sarajevo, dove ha vissuto da sola, correndo ogni giorno sotto il fuoco dei cecchini per andare a scuola. Se provi a chiederle come si fa a resistere, dice con un sorriso: «la morte non ci fa paura; noi musulmani diciamo che è più vicina del collo alla camicia». A 16 anni infine è tornata a Tuzla, ormai nel caos per la fame, il sovraffollamento, i feriti. Si è assunta lei la responsabilità di gestire il campo profughi: «eravamo in trecento e non avevamo niente, bisognava trovare medicine e cibo, tenere i contatti con le autorità locali e i responsabili dell’Unhcr e dell’Unicef. Qualcuno doveva occuparsene e l’ho fatto io», racconta con semplicità. Suo padre e suo fratello sono stati uccisi, lei è rimasta: è la sua terra, questa. Anche se convivere con chi è stato il tuo nemico fino a ieri non è facile: «per me all’inizio i serbi erano tutti assassini, poi grazie ai miei colleghi ho cominciato ad elaborare i traumi e affrontato i miei pregiudizi», ammette.
Il problema fondamentale per Srebrenica, comunque, è ripartire. Una città che era un rinomato centro di acque termali, dove la gente veniva a rilassarsi, oggi è circondata da fosse comuni, in buona parte ancora minate. Da due decenni si celebrano ininterrottamente funerali, e i dispersi sono ancora migliaia: la montagna che circonda Srebrenica è un immenso cimitero, montagna nera e rossa di piombo, argento e bauxite, interrotta dalle distese di stele bianche – un nome e la data di morte, per tutti la stessa.
Nonostante i fondi che continuano a piovere sul territorio, il tenore di vita è decisamente basso. Eppure c’è chi ci prova davvero a ricominciare, come Rada Zarković e i suoi “lamponi di pace”, una cooperativa dove lavorano fianco a fianco donne musulmane e ortodosse, o come Avno Purković, che ha ricostruito il ristorante del padre Abdulah: «all’inizio cucinavamo in un garage, con due tazze e due piatti, perché il nostro locale era stato distrutto». Oggi ha rimesso a posto la casa di famiglia e ha riaperto la sua Pansion Misirlije: come clienti ha i membri delle ong o i pellegrini delle commemorazioni; turisti però non se ne vedono. «La maledizione di Srebrenica è che la gente viene soltanto il giorno dell’anniversario, o se c’è un funerale, e poi non vede l’ora di andarsene – conclude Azra Ibrahimović – Siamo bloccati dentro una contraddizione terribile: da un lato si viene qui soltanto per ricordare cosa è stato, dall’altro il genocidio continua a essere negato. E in mezzo ci siamo noi e un paese immobilizzato».
Sono passati vent’anni e tra retorica e cattiva coscienza dell’Europa, anche i vivi rischiano di finire chiusi nel memoriale, come i morti.