Federica Tourn (Left 6/4/2018)
Ervin e i suoi amici si ritrovano abitualmente alla Piramide, nel centro di Tirana, per passare il pomeriggio, o la sera se c’è qualche concerto in programma. Felpe e tatuaggi che ostentano l’aquila a due teste, corrono a tutta velocità lungo le pareti di quello che è stato per pochi anni il mausoleo di Enver Hoxha e poi, con il crollo del comunismo nel ’91, è diventato centro culturale, sede di una televisione e infine occasionale spazio di musica underground. Progettato dal genero del dittatore secondo la magniloquenza tipica dei regimi, oggi è un ammasso di cemento e ferro che resiste nonostante le proposte di demolizione, in mezzo a una città che ha fretta di lasciarsi alle spalle un passato ingombrante di dominazioni straniere, dittatura e crisi politico-economiche per fare finalmente ingresso, ripulita di fresco, nell’Europa dei grandi. Non più barconi con disperati che scappano verso l’Italia, oggi è l’Albania che accoglie a braccia aperte gli imprenditori attirati dalla manodopera a basso costo (e dalle normative più elastiche), o i turisti che nel 2017 hanno fatto il pienone negli alberghi della costa e perfino i pensionati del bel Paese che sempre di più progettano la pensione sulla sponda opposta del Tirreno.
A guardare la capitale dall’alto si vede un brulicare di lavori di riammodernamento ed edifici in costruzione: per il recente restauro della sola piazza Scanderbeg, cuore storico e simbolico della città, sono stati spesi 12 milioni di euro. D’altronde secondo i dati Instat, l’Istituto delle statistiche albanese, nel 2017 sono stati rilasciati 819 permessi edili, ben 88,3% in più rispetto all’anno precedente, la maggior parte proprio a Tirana (in barba alla promessa di “zero costruzioni” dell’attuale sindaco Veliaj nella campagna elettorale del 2015), con un incremento del 118% rispetto al 2016. Per non parlare della gigantesca moschea regalo di Erdogan che, una volta ultimata, conterrà 4500 persone; una bella (si fa per dire) impronta turca in territorio balcanico, e anche un avvertimento, nel caso l’Europa continui a fare troppo la difficile con l’ammissione nell’Unione.
Una crescita ostentata, ma quanto reale? «L’economia in Albania è difficile da interpretare a causa dell’elevato livello di denaro sporco – spiega Gjergj Erebara di Birn (Balkan Investigative Reporting Network) Albania, ong che si occupa dello stato di salute della libertà di informazione nei Balcani – ufficialmente, la crescita è stata debole ma costante negli ultimi anni. Non ci sono stati grandi investimenti esteri e il governo non ha portato a termine alcun progetto importante, come la fornitura di strade o di acqua. Negli ultimi due anni il numero di persone ufficialmente impiegate nel settore non agricolo ha registrato un’impennata; tuttavia molti esperti pensano che questa non sia una crescita reale ma un’emersione del lavoro nero. Le persone che erano impiegate nel settore informale sono state obbligate a pagare le tasse, il che è una buona cosa ma non si traduce necessariamente in migliori condizioni economiche». I salari non crescono e di conseguenza non aumentano i consumi.
In Albania c’è un rimosso. E non è soltanto quello di quasi 50 anni di comunismo, ancora non elaborati a livello collettivo ma frettolosamente liquidati – anche se non basta nascondere le opere di “zio Enver” nel bagno di servizio, come al Museo della Memoria di Scutari, o le statue dei compagni Lenin e Stalin nel retro della Galleria nazionale delle arti di Tirana, per cancellare il largo consenso che la dittatura aveva fra la gente. Il rimosso riguarda soprattutto la povertà che resiste sotto lo strato di luccicante entusiasmo che il premier Edi Rama spalma su ogni dichiarazione pubblica a proposito del miracolo albanese. Lo stato sociale infatti è debole e non riesce a sostenere i suoi cittadini: uno stipendio medio si aggira sui 350 euro e i servizi pubblici – acqua, elettricità, fognature, istruzione e assistenza sanitaria – sono inadeguati.
Eppure Rama è ottimista: «possiamo pienamente affermare che l’Albania merita i negoziati» aveva detto senza giri di parole a Bruxelles lo scorso dicembre. E pazienza se era ancora caldo, politicamente parlando, il cadavere del suo delfino, Saimir Tahiri, ex ministro degli Interni fino a marzo 2017, destituito in fretta e furia con un maldestro rimpasto di governo, dopo essere salito agli onori della cronaca per losche vicende legate a un traffico di stupefacenti gestito da due suoi cugini. E, si sa, in Albania la famiglia conta: e più che altro conta il voluminoso fascicolo del tribunale italiano sul caso, che conferma l’attività di un gruppo di criminali che dal ’98 ha potuto operare indisturbato fra l’Italia e l’Albania, trasportando armi e tonnellate di cannabis nel nostro paese per un ammontare di 20 milioni di euro. Le intercettazioni della polizia ipotizzano la relazione fra la banda e Tahiri: manca, come si suol dire in gergo, “la pistola fumante”, ma ce n’è abbastanza per imbarazzare il governo di Rama – la procura aveva chiesto l’arresto di Tahiri, negato dal Parlamento, che ha votato per l’immunità – e gettare una luce sinistra sulle modalità di gestione degli affari a Tirana.
La corruzione è la madre di tutti i problemi del paese: «la mazzetta è usata dai partiti come mezzo per governare in assenza di un’ideologia credibile – spiega Erebara – ma forse dovremmo parlare di estorsione: i cittadini infatti sono obbligati a pagare per ottenere servizi pubblici in teoria gratuiti». Un sistema di governo, se così si può dire, che innerva tutte le strutture dello Stato e che, non a caso, preoccupa l’Europa, anche se un mese fa Juncker ha dichiarato di essere rimasto «positivamente impressionato dai progressi fatti dall’Albania in diversi settori, dalla riforma giudiziaria, alla lotta alla corruzione». La riforma della giustizia è un nodo cruciale in questo percorso, se si vuole almeno tentare di garantire la separazione dei poteri e correggere il sistema vischioso che finora ha legato il sistema politico a quello giudiziario, in un reciproco balletto di favori e concessioni.
Inutile dire che la riforma, che prevede modifiche costituzionali e legislative oltre a una verifica della correttezza dei magistrati, è fra i primi punti all’attenzione di Bruxelles. Facile a dirsi, ma gli ostacoli da rimuovere sono enormi e il processo di “pulizia del sistema” potrebbe richiedere anni. Il paese ha attualmente un procuratore generale provvisorio e anche se sei persone si sono già dimesse per evitare i controlli, «la commissione preposta a indagare sui giudici e i pubblici ministeri non ha ancora indagato nessuno e la nuova agenzia nazionale per verificare la corruzione ad alto livello e la criminalità organizzata non è stata ancora istituita», sottolinea Erebara.
Nessuno può dire, oggi, se il paese sarà in grado di darsi delle strutture adeguate per indagare e punire adeguatamente la corruzione, sia nel sistema giudiziario sia tra le classi politiche, senza contare gli effetti istituzionali di un intervento di questa portata.
Soprattutto in uno Stato che soltanto vent’anni fa veniva affossato da un crack finanziario colossale, che oltre a precipitare il paese nel caos, ha liberato fantasmi rimasti imprigionati dal vaso di Pandora del comunismo. Come la gjakmarrja, la vendetta di sangue prescritta dal Kanun, un antico codice consuetudinario tornato in auge durante il periodo di anarchia e che ora il governo di Rama vorrebbe nascondere come la polvere sotto il tappeto. Sono storie di clan rivali e di faide che durano decenni, in cui l’unica legge che conta è quella dell’onore: morti ammazzati, soprattutto nel nord dell’Albania, e famiglie chiuse in casa che si affidano soltanto al barajktar, un mediatore rispettato dalle parti in lotta, oggi come nel Medioevo. Il presidente della Corte d’appello di Scutari Fuat Vjerda ci tiene a sottolineare che dal 2016 non ci sono stati casi di fronte al suo tribunale, ma le organizzazioni che si occupano delle vittime hanno ben altra esperienza. Un fenomeno che, se pur minimizzato dalle autorità, è stato comunque riconosciuto formalmente con una modifica del codice penale nel 2013: «l’articolo 78a prevede che venga condannato a 35 anni di reclusione chi uccide per gjakmarria, considerata un aggravante dell’omicidio», conferma Vjerda.
Di recente la Corte di Appello di Ancona ha concesso protezione internazionale a un cittadino albanese minacciato dal Kanun e la tutela dei diritti umani è un altro capitolo importante all’esame della Commissione per la candidatura del paese nella Ue. Nonostante tutto, il 2018 potrebbe essere davvero l’anno buono per l’apertura dei negoziati. Alla prospettiva, l’anziano presidente Vjerda resta tiepido: «Europa? Difficile, troppi requisiti da rispettare. Sull’Albania c’è un dossier di migliaia di pagine. Ma vedremo».