Zerocalcare, meglio il fumetto del film

Di Federica Tourn (Esquire, 4/9/2018)

 La profezia dell’armadillo, il film di Emanuele Scaringi basato sulla famosa graphic novel, in concorso nella sezione “Orizzonti”, è la dimostrazione di quanto sia impresa ardua portare sullo schermo i “disegnetti” del fumettista di Rebibbia, Michele Rech, in arte Zerocalcare. E non è soltanto questione di linguaggi diversi (anche) ma di tutta la complessità di riferimenti culturali, invenzioni grafiche e disperazione generazionale che i lettori di Zero conoscono bene e che il film perde per strada, riducendo il viaggio introspettivo del protagonista a un melò per adolescenti, un selfie autoreferenziale che non rende giustizia al melanconico umorismo del fumetto.

La trama, per chi non fosse fra i centomila lettori della Profezia (diciotto ristampe, premio Gran Guinigi 2012), racconta della vita di un disegnatore quasi trentenne della periferia di Roma, che passa le giornate al pc, fra lavori precari e amici del quartiere; la morte precoce di un’amica d’infanzia lo costringe a fare i conti con il passato e la fragilità dell’esistenza. Al suo fianco il fedele armadillo, bestia corpulenta e (non a caso) corazzata, rappresentazione della sua coscienza, sempre pronto a suggerirgli la strada migliore per evitare l’ingresso nel mondo degli adulti e restare introverso, pigro e paranoico. Uno spirito guida controcorrente che lo mette in guardia dalla fiducia nel futuro con la “profezia dell’armadillo”, e cioè «qualsiasi previsione ottimistica fondata su elementi soggettivi e irrazionali spacciati per logici e oggettivi, destinata ad alimentare delusione, frustrazione e rimpianti, nei secoli dei secoli. Amen».

Purtroppo nel film non c’è niente dell’immaginifico mondo dei cartoni animati, dei fumetti e delle serie tv anni ’80 che sono per Zero la cifra interpretativa del mondo e che diventano una modalità espressiva universale, per cui non importa se sei cresciuto con Heidi, Fonzie e Starsky e Hutch (come me) o con Drangoball, Sailor Uranus e Ken il Guerriero (come lui), perché ci si capisce lo stesso; anche perché il pluricitato Yoda ci unisce, forza interplanetaria e intergenerazionale. Sullo schermo lo stesso armadillo sembra un trucco parrocchiale anni ’50 montato su una sedia da ufficio, i dialoghi non sempre sono efficaci e i personaggi sul set risultano poco naturali, in primis il protagonista (interpretato da Simone Liberati) che troppo spesso diventa un maestrino pedante che ti spiega come vivere. L’unico che si salva è Secco (Pietro Castellitto), migliore amico e spalla del protagonista, giocatore notturno di poker online, di modi spicci e imprevedibile, sempre pronto a tirare una bomba carta se serve. Non nel film, s’intende, qui tutti sono più perbenino; anche gli interni sembrano più dei loft un po’ trasandati dei Parioli che appartamenti di periferia; e come si fa a far interpretare la lady Cocca madre di Zero a Laura Morante, che pare sempre appena uscita da un atelier parigino?
Ridere comunque si ride, perché la sceneggiatura pesca direttamente dal fumetto e la firmano lo stesso Michele Rech oltre a Valerio Mastrandrea, Johnny Palomba e Oscar Glioti. Qui però Rebibbia non regna, regà, facciamocene una ragione. Non cercate complessità sociale, rappresentazione di divari di classe o anche la tragica assenza di futuro in una società senza prospettive che struttura l’esistenza di una generazione, smarrita di fronte a uno Stato che dopo le violenze delle forze dell’ordine al G8 di Genova è diventato fosco e inaffidabile. Ed è strano in fondo, dato che lo stesso Scaringi viene dalla periferia romana e questi ragazzi deve pur averli visti in faccia qualche volta; e ancora più strano se si pensa che ha partecipato alla sceneggiatura di Diaz, nel 2012, il film di Daniele Vicari sul massacro di Bolzaneto.
Senza contare che l’intreccio risulta del tutto incomprensibile a chi viva più a nord di Roma nord: gli stranieri guardano lo schermo storditi senza capire niente (un critico berlinese mi ha confessato che durante tutta la proiezione ha creduto che lo spray al peperoncino che Secco si spara sulla faccia per allenarsi a resistare agli attacchi della polizia serva invece a stuprare le ragazze).
Zerocalcare a Venezia c’era, con buona pace dei colleghi che non l’hanno visto; l’ha notato però una signora entusiasta, seduta in sala davanti a me che gli ha chiesto: «posso farti una foto? Non per me, eh, per le mie amiche». Lui, entusiasta come sempre dei fan: «se proprio devi»; lei allora rincara: «ci illumini le giornate», e lui, lapidario: «maddeché». Zero c’era dunque, ma non a vedere il film sulla sua vita (dagli torto) ma i Sisters brothers di Jacques Audiard, western ironico-tragico sulla scia dei geniali Cohen Brothers. Al suo fianco un tipo col cappellino a visiera e mille tatuaggi che poteva essere lo stesso Secco, o forse Deprecabile (vedi l’ultima graphic novel Macerie prime), ma dato che non aveva in mano un Campari non posso assicurare.
Meno male che il Cinghiale nel film non s’è visto, almeno abbiamo ancora qualcosa di coatto da sognare.

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