Di Federica Tourn e Claudio Geymonat (Eastwest.eu, 28/11/2018)
La Central European University di Budapest, l’università fondata da Soros nel ’91, alla fine dell’anno sarà probabilmente costretta a lasciare l’Ungheria per rifugiarsi nel Paese di un altro sovranista, l’Austria di Sebastian Kurz.
ll rettore Michael Ignatieff, stanco di quella che ormai ritiene un’inutile attesa, ha infine deciso di fissare una deadline al primo dicembre: se a quella data il governo di Viktor Orbán continuerà a rispondere con il silenzio alle reiterate richieste di dialogo, la Ceu lascerà definitivamente Budapest per Vienna, dove sono già stati trasferiti alcuni corsi, grazie a un memorandum di intesa siglato con il governo ad aprile e rafforzato dall’incontro fra il premier austriaco e Soros nei giorni scorsi.
Creata con lo scopo di formare le nuove generazioni di intellettuali del Centro Europa post comunismo, la Ceu è l’ennesima vittima della politica anti Soros del premier. Eppure i rapporti tra Viktor Orban e il magnate non sono sempre stati così tesi, anzi. È grazie a una borsa di studio della Open Society Foundation – aperta già nel 1984 in Ungheria per aprire una breccia liberale nel socialismo reale – che nel 1989 l’allora ventiseienne Viktor Orbán ha potuto studiare un anno al Pembroke College di Oxford, per poi tornare in patria e candidarsi alle elezioni del primo parlamento post comunista.
La crisi dei migranti del 2015 – quando Soros mette in campo un grande impegno economico e organizzativo per gestire gli imponenti flussi di persone provenienti dai Balcani – provoca la rottura. Da allora solo bastoni fra le ruote, conditi da una pesante campagna mediatica che ha fatto di Soros il nemico numero uno dell’Ungheria, impegnato secondo il premier a favorire l’invasione islamica della nazione e dell’Europa intera. E l’11 aprile del 2017, nel giorno in cui vengono varate le leggi contro le Ong, indirizzate a colpire le varie organizzazioni legate a Soros – il Parlamento di Budapest approva anche la legge sul nuovo ordinamento dell´istruzione superiore, che impone alle università straniere un accreditamento e una sede operativa anche nel Paese di origine dell’ateneo.
Nel mirino c’è innanzitutto la Ceu che non ha una “casa madre” negli Stati Uniti ma che a tempo record provvede a stipulare un’intesa con il Bard College di New York, con cui da tempo intrattiene scambi accademici e culturali. Riaccredimento quinquennale confermato anche da una verifica del Mab, l’ente che controlla la qualità dell’insegnamento universitario nel Paese. E tuttavia, risolta questa impasse, subito se ne presenta un’altra: lo Stato dove l’università straniera è registrata deve infatti anche stipulare un accordo bilaterale con il paese “ospite”. Senza la firma del governo a un memorandum congiunto con lo Stato di New York, sede del Bard College, il Ceu resta quindi fuorilegge.
Parrebbe una formalità ma niente è semplice nell’Ungheria di Orbán, dove gli iter burocratici kafkiani giungono soltanto dove il premier vuole. «In molti altri casi simili al nostro, l’Ungheria ha siglato senza problemi protocolli con altri Stati – spiega Éva Fodor, prorettrice per il Dipartimento Scienze sociali e umanistiche della Ceu – i documenti che la Ceu ha inviato al ministero competente invece non sono mai stati presi in considerazione e lo stesso governo non ci ha mai risposto. Oggi viviamo in un limbo: se questo accordo non viene firmato entro la fine dell’anno, risulterà che non abbiamo adempiuto ai requisiti di legge necessari per restare in Ungheria e dovremo andarcene». Anche se trasferire un campus che occupa un intero isolato nel centro di Budapest e conta sedici dipartimenti,1500 studenti, di cui la metà è ungherese, oltre a un migliaio fra docenti e impiegati non è certo una questione da poco.
Éva Fodor è anche professoressa associata di gender studies, una materia che il governo a ottobre ha bandito dalle università ungheresi con un decreto in cui si sostiene che si tratta «non di scienza ma di ideologia». «Soltanto tre università in Ungheria offrivano corsi di gender studies – commenta Fodor – alla Ceu abbiamo due programmi, uno accreditato negli Stati Uniti e un altro in Ungheria, e soltanto quest’ultimo, che coinvolge una ventina di studenti, verrà chiuso. Non è un danno enorme sotto il profilo pratico perché, a parte l’impossibilità di continuare ad avere scambi in questa materia con altri atenei, noi continueremo a insegnare gender studies nel programma americano e in generale sappiamo che si potrà studiare la disciplina altrove in Europa. Più che altro colpisce l’idea che un governo che non concorda per motivi politici con i valori propugnati in un corso accademico decida di metterci una croce sopra. È una palese violazione della libertà di insegnamento».
Sulle reali motivazioni che avrebbero spinto Orbán e i suoi a entrare nel merito di una materia di insegnamento, Fodor non ha dubbi: «Innanzitutto hanno completamente frainteso il senso dei gender studies, non sanno probabilmente nemmeno di che si tratta; siamo piuttosto di fronte a una paura generica, agitata a fini politici. È la prima volta che in Europa una materia viene semplicemente cancellata: il governo ha il diritto di intervenire nei programmi universitari, ma si tratta di una formalità di tipo amministrativo o nel caso di corsi che da anni non hanno iscrizioni. In questo caso, però, si è trattata di una decisione politica, un atteggiamento che fa parte di una campagna più vasta volta a colpire gli intellettuali, il mondo della cultura e dei media».
C’è chi non ci sta e non si stanca di rivendicare quella democrazia che in Ungheria giorno dopo giorno viene dissanguata dai provvedimenti del premier contro la libertà di espressione, come la forte tassazione sulle entrate pubblicitarie dei mezzi di informazione, che negli ultimi anni ha costretto molti giornali a chiudere. Ad aprile 2017, all’indomani della votazione della legge sull’istruzione universitaria, migliaia di persone sono scese in piazza a sostegno della Ceu e da tutto il mondo sono arrivati messaggi di incoraggiamento al campus di via Nadòr da intellettuali, scrittori e premi Nobel; dall’Italia hanno protestato anche la Scuola superiore Normale di Pisa e la Scuola internazionale superiore di Studi avanzati di Trieste.
«Molti a Budapest hanno capito la portata simbolica della chiusura della Ceu – ha commentato la professoressa Fodor – quanto a noi, abbiamo combattuto molto per poter restare in Ungheria ma nonostante tutto il supporto che abbiamo ricevuto non c’è nulla che possiamo fare se il governo continua a ignorarci». Ormai, come anche il rettore Ignatieff ha detto pubblicamente, le speranze che da Orbán arrivi un segnale di segno contrario sono sempre più esigue. Il fatto che il 21 novembre il portavoce del governo Zoltan Kovacs abbia ribadito, durante una conferenza stampa all’Accademia d’Ungheria di Roma, che l’istituzione fondata da Soros non è riuscita a adempiere alle condizione poste dalla legge, non è certo incoraggiante.
«Il Dipartimento dell’educazione dello Stato di New York ha ripetutamente informato il governo ungherese che la Ceu sta conducendo attività educative a New York: se non vuole avere a che fare con noi, il governo va contro le sue stesse disposizioni di legge», ha detto senza mezzi termini in una lettera al ministro degli Esteri del 22 novembre il rettore Michaele Ignatieff, esasperato dagli attacchi della stampa di regime, che continua a sostenere che la Ceu non abbia una sede negli Stato Uniti. Ignatieff, stanco di quella che ritiene un’inutile attesa, ha infine deciso di fissare la deadline all’1 dicembre: se a quella data il governo continuerà a rispondere con il silenzio alle reiterate richieste di dialogo e a non voler firmare il sospirato memorandum congiunto con lo Stato di New York, la Ceu lascerà definitivamente Budapest per Vienna.