Di Federica Tourn e Claudio Geymonat (Venerdì di Repubblica, 11/01/2019)
C’è una città nel nord dell’Iraq che due anni fa ha cambiato nome: da Tel Skuf è diventata Bint Al-Majar, Figlia di Ungheria. Un ringraziamento per i massicci finanziamenti piovuti in questa fetta di Medio Oriente per precisa volontà del governo di Viktor Orbán. Intento nobile, se non fosse unilateralmente rivolto ai cristiani: «il gruppo religioso più oppresso al mondo, anche se nessuno lo sa a causa delle pressioni delle lobby islamiche internazionali». A parlare è Tristan Azbej, responsabile del primo Dipartimento di Stato per la difesa dei cristiani perseguitati, direttamente dipendente dal primo ministro, un’idea che ora il vice presidente degli Stati Uniti Mike Pence vorrebbe replicare anche a Washington.
Per il premier magiaro, un progetto che supporta le zone devastate dalle guerre e che ha devoluto alla causa 14 milioni di euro (una goccia nel mare), non contrasta affatto con la chiusura totale delle frontiere ma, anzi, è la logica conseguenza della politica dell’“aiutiamoli a casa loro”. Il nuovo dipartimento è stato presentato due anni fa proprio in Italia, a Frascati, dove ogni estate si tiene con la benedizione papale il meeting dell’International Catholic Legislators Network, creato nel 2010 per fare lobby contro le persecuzioni dei cristiani in Medio Oriente ma anche per difendere l’indissolubilità del matrimonio o la sacralità della vita sin dal concepimento. Anche lo scorso agosto, il primo ministro ungherese ha approfittato della visita all’amico Matteo Salvini per fare un salto in Lazio e stringere alleanze con vescovi e politici cattolici lontano dalle indiscrezioni dei media.
In patria, d’altro canto, Orbánincassa l’approvazione del primate d’Ungheria, il cardinale Péter Erdő, e di gran parte dei porporati; per non parlare del supporto del vescovo di Szeged László Kiss-Rigó, uno dei suoi fan più accaniti quando si tratta di respingere i migranti. Tre anni fa Kiss-Rigó è diventato famoso per aver dato del buonista a papa Francesco e oggi ribadisce che chiudere le frontiere «è soltanto una questione di buon senso: accogliere significa essere complici dei terroristi». Sul versante protestante, la musica non cambia: Vilmos Fischl, segretario del Consiglio ecumenico delle chiese in Ungheria, non trova un solo difetto nella politica di Fidesz: «non possiamo sacrificare le nostre tradizioni cristiane – sostiene con passione – per la debolezza dei sistemi democratici, che non sono in grado di tutelarci dall’invasione islamica». E che dire del pastore calvinista Lóránt Hegedüs, già parlamentare del partito di estrema destra Jobbik, che ha collocato all’ingresso della sua chiesa nel centro di Budapest una statua di Miklós Horthy, l’ammiraglio che dal 1920 al 1944 governò la nazione e fu tra gli alleati più fedeli del nazismo?
Questa è l’Ungheria di oggi, plasmata dall’uomo forte nato a Székesfehérvár, la città dei re, 55 anni fa. Orbán deve rimpiangere non poco l’epoca degli assolutismi, tanto da tentare in ogni modo di ricrearne uno oggi, alla faccia del percorso democratico che l’Europa ha avviato dopo gli sfaceli di due guerre mondiali e, soprattutto, in spregio alla “relazione Sargentini”, approvata dal Parlamento europeo lo scorso settembre, in cui l’Ungheria è stata accusata di non corrispondere agli standard democratici richiesti dall’Unione. In attesa del voto al Consiglio d’Europa, che a breve dovrà decidere sulla sorte del paese, Stato e Chiesa serrano le fila e, mentre il potere temporale tuona contro le ingerenze esterne, quello spirituale chiosa per bocca del vescovo Kiss-Rigó: «la Ue? Lasciamoli divertire».
La spada ha bisogno della croce, si sa, sin dai tempi di Santo Stefano, primo re d’Ungheria, fondatore dello Stato e della chiesa ungherese e morto proprio a Székesfehérvár. Non a caso il riformato Orbán, un tempo accanito anticlericale, oggi corteggia le chiese in nome di una Realpolitik che mette i “valori cristiani” in cima alle priorità della nazione, in barba alla separazione fra Chiesa e Stato, sancita dalla Costituzione del 2012. Così il governo non soltanto spendemilioni di fiorini quando si tratta di restaurare cappelle o inaugurare campanili, ma soprattutto si occupa di ricostruire il sistema scolastico delle chiese, azzerato durante il periodo comunista. Secondo il Budgetary Responsibility Institute di Budapest, infatti, le scuole religiose ricevono il triplo dei fondi pubblici rispetto a quelle statali. Se si considera poi che le scuole private non soltanto sono meglio attrezzate ma sono anche completamente gratuite, non si fa fatica a capire l’aumento dal 2011 dell’80% delle iscrizioni agli istituti cristiani.
Anche il percorso spirituale di Orbán è interessante. Sua moglie, Anikó Lévai, è cattolica e il loro matrimonio è stato celebrato dal pastore metodista Gábor Iványi, amico di famiglia, la cui chiesa è stata poi “sconfessata” dallo stesso Orbánnel 2011 grazie alla nuova legge sulle religioni, un giro di vite che ha ridisegnato il panorama delle confessioni cui lo Stato assegna uno status giuridico (e contributi pubblici), riducendo da 300 a 14 il numero delle chiese ammesse.
Iványi, che ha anche battezzato i primi due figli della coppia, Rahel e Gáspár (poi prontamente fatti ribattezzare in “vere” chiese), è un acerrimo oppositore della politica di Fidesz e a quanto pare ha pagato caro l’essere fuori dal coro. Ma non è tutto: se si aggiunge che proprio Gáspár, ex calciatore, oggi 25enne, è pastore in una comunità pentecostale – il Centro cristiano Félhaz, da lui fondato nel 2015 insieme a due amici – e che organizza raduni frequentati da centinaia di giovani con l’intento di «portare il paese a Dio, in particolare i non cristiani», si può immaginare quanto sia complesso l’intrico di fede e politica che si muove dietro la famiglia Orbán. Anche Gáspárha già incontrato un papa, Benedetto XVI, e proprio come il padre sembra convinto che la religione debba essere presente nella politica, nell’educazione e nell’industria dell’intrattenimento. Tutto insomma, tranne che una questione privata.