C’è lockdown e lockdown
Sono passati due mesi da quando un incendio, la notte del 9 settembre, ha completamente distrutto il campo profughi di Moria, a Lesbo. Tredicimila persone sono scappate dalle fiamme riversandosi in strada, lasciandosi (di nuovo!) tutto alle spalle, perdendo le poche cose che possedevano e i documenti per la richiesta d’asilo, fragile filo che li legava all’Europa. Fuori, nella notte, mentre il fuoco sulla collina continuava a bruciare, hanno trovato ad attenderli i lacrimogeni della polizia, accorsa a contenere la fuga.
Hanno vissuto per strada, nei cimiteri, con poca acqua e cibo portato dalle organizzazioni umanitarie, in attesa che le istituzioni locali ed europee decidessero di loro: quella che poteva essere un’opportunità per ripensare la tragica condizione dei richiedenti asilo bloccati nelle isole greche è stata invece l’ennesima conferma dell’indifferenza dell’Europa.
Un nuovo campo è stato montato in pochi giorni lungo la strada principale, a ridosso del mare ed esposto alle intemperie: è stato classificato come temporaneo, ma sembra ormai evidente che i circa settemila occupanti dovranno rassegnarsi a passare l’inverno lì, all’incrocio dei venti che in questa stagione soffiano forti, con il freddo, su un terreno che quando piove (l’abbiamo già visto) si allaga e diventa una piscina di fango. Non c’è acqua corrente, non ci sono fogne, i bagni chimici sono insufficienti e ancora – dopo due mesi – non c’è una doccia per lavarsi.
Intanto, è stato chiuso dalle autorità il centro per persone vulnerabili di Pipka, uno dei pochi esempi virtuosi di accoglienza; i 74 occupanti sono stati trasferiti per il momento nel campo di Kara Tepe, lungo la strada principale, non lontano dal nuovo centro governativo.
Ora anche sulla Grecia è sceso un nuovo lockdown per contenere la pandemia e per chi vive nel campo significa una cosa sola: essere chiusi dentro, come in una prigione, ma da innocenti. Una plastica prefigurazione di quello che dovrebberoro diventare i nuovi campi profughi secondo le previsioni della nuova legge sull’immigrazione, voluta dal premier Kyriakos Mitsotakis ed entrata in vigore il 1° gennaio 2020.
Muore il figlio nella traversata verso Samos: incarcerato
Le cronache della frontiera ci pongono quotidianamente davanti a incredibili escalation di orrore. Sabato notte, il 7 novembre, è annegato al largo dell’isola di Samos un bambino di sei anni mentre tentava, insieme al padre e ad altre persone, di attraversare quel braccio di mare che separa la costa turca dalla Grecia. Il padre, un giovane afgano di 25 anni, è riuscito a sbarcare ed è stato subito arrestato dalle autorità con l’accusa di aver messo in pericolo la vita del figlio: se condannato, rischia fino a dieci anni di carcere.
Le stesse autorità che ignorano volutamente i respingimenti dei gommoni provenienti dalla Turchia oggi mettono in cella un padre disperato: le stesse autorità, greche ed europee, che chiudono gli occhi quando imbarcazioni guidate da uomini incappucciati, o la stessa Guardia Costiera, ributtano i migranti in acque turche con manovre pericolose e azzardate, non hanno remore a imprigionare un uomo sotto choc per la morte del figlio.
Intanto oggi, 11 novembre, un nuovo incendio ha colpito il campo profughi che accoglie circa quattromila persone. È il secondo in una settimana; altri due incendi dolosi erano stati appiccati allo stesso campo a settembre.
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(foto: Stefano Stranges, controlli al nuovo campo profughi di Lesbo, settembre 2020)