Le «crudeli aggressioni psicologiche» di Rupnik di fronte alle resistenze

Di Federica Tourn

Domani, 23 gennaio 2023

Diciasettesima puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.

Complice l’attenzione riservata alla morte di Benedetto XVI, nella Chiesa è calato un pesante silenzio su Marko Rupnik, il gesuita vicino a papa Francesco al centro di uno scandalo per le violenze commesse su diverse suore negli anni ’90 e per una scomunica latae sententiae, poi subito revocata dalla Santa Sede. Se il Vaticano non parla, lo fanno però le vittime, continuando ad aggravare con le loro testimonianze la posizione del famoso artista e di chi lo ha protetto.

«Padre Rupnik mi disse: se non decidi per la Comunità Loyola non decidi per il Cristo. Io ero giovane, lui era la mia guida spirituale e mi fece capire che se non entravo a far parte della sua congregazione non appartenevo più a Cristo». La storia di Klara (nome di fantasia), oggi 58 anni, adescata dal gesuita quando era ancora minorenne, è la cronaca di un plagio totale, che ha coinvolto ogni aspetto della sua esistenza. Rupnik ha fatto leva sull’inesperienza e l’insicurezza dei suoi sedici anni per indurla a frequentare i ritiri spirituali con lui e poi forzarla a entrare nella Comunità Loyola. Una volta in suo potere, l’ha costretta a fare sesso «per il suo bene» e ha cercato di iniziarla ai rapporti a tre affidandola a un’altra donna affinché la “istruisse” e la preparasse per l’incontro con il “guru”.

Quando ha incontrato Rupnik?

L’ho conosciuto nel 1980, quando avevo sedici anni. Rupnik era stato ricoverato per un’infezione nella Clinica per le Malattie Infettive a Lubiana, dove io stavo svolgendo il tirocinio obbligatorio dopo il primo anno della Scuola per infermiere. Eravamo da soli nella stanza e mentre rifacevo il letto la croce che portavo al collo mi è scivolata fuori dalla camicia: mi sono spaventata, eravamo ancora negli anni del comunismo in Jugoslavia e mostrare di essere cristiani poteva essere pericoloso. Lui per tranquillizzarmi mi ha detto che era un gesuita e che aveva uno studio artistico a Roma. Quando è stato dimesso, mi ha invitato a partecipare a un gruppo di giovani che lui stesso aveva creato e che si riuniva nella sede dei Gesuiti a Dravlje, a Lubiana.

E lei?

Sono andata. Un anno dopo, poco prima di Natale, ho partecipato anche a un ritiro spirituale nel Monastero di Stična, a quaranta chilometri dalla capitale. Alla fine della giornata, mentre mi salutava, Rupnik mi ha abbracciata e baciata, giustificando quel gesto con il mio bisogno di tenerezza. Mentre continuava ad abbracciarmi e baciarmi, mi ripeteva che lo faceva solo per il mio bene.

Che impressione le faceva Rupnik in quel periodo?

Ero confusa, colpita dalle attenzioni che mi rivolgeva. Mi ero da poco trasferita dal mio villaggio di campagna in città ed ero molto insicura e influenzabile, mentre lui era già considerato un leader. Inoltre ero molto religiosa; sin da bambina sognavo di andare in missione, anche se ancora non sapevo se come suora o come laica. Il mio desiderio era di mettermi al servizio degli altri e per questo avevo studiato da infermiera. Lui ha subito captato questa mia aspirazione e l’ha indirizzata verso la Comunità Loyola in formazione. Era molto insistente, e allo stesso tempo mi parlava sempre di una ragazza italiana, sua modella nell’atelier dove dipingeva, come esempio di femminilità ed erotismo, caratteristiche che diceva di vedere anche in me.

Era convinta di entrare nella Comunità Loyola?

Tutt’altro. Qualche mese prima di entrare in comunità, nel 1986, durante l’anno di “prova”, in cui si verificava se davvero avevamo la vocazione a prendere i voti, ho ricevuto una proposta di fidanzamento da parte di un ragazzo che conoscevo. L’ho detto alla sorella responsabile della comunità slovena e subito è arrivata la convocazione da parte di padre Rupnik ad andare a Roma per parlare con lui. In quell’incontro mi ha rimproverata duramente dicendomi che ero una stupida e che stavo sbagliando tutto. «Se non prendi la decisione di scegliere la Comunità Loyola significa che non scegli Cristo nella tua vita»: queste sue parole mi hanno spaventata perché ero una persona religiosa e non volevo certo allontanarmi da Dio. Anche al momento della scelta definitiva ho avuto dubbi: si era risvegliato in me il desiderio di partire come missionaria laica ma padre Rupnik tagliò corto dicendo che la mia decisione per la Comunità Loyola non poteva e non doveva essere cambiata. Avevo 23 anni quando sono entrata in comunità nel 1987 e ho preso i voti definitivi quattro anni dopo.

Quando sono cominciati i primi approcci sessuali?

L’anno prima di entrare nella Comunità Loyola, nel 1986, abitavo a Lubiana in un appartamento in subaffitto. In quel periodo, padre Rupnik viveva nella comunità dei Gesuiti a Gorizia e a volte passava a trovarmi quando era in città. In una di queste occasioni mi ha invitata a entrare con lui nel bagno, dove ha cominciato a masturbarsi, davanti a me, sopra il lavandino; poi mi ha preso la mano in modo che continuassi io, mentre con l’altra mi spingeva la testa verso il basso. Mi diceva che lo faceva solo per il mio bene: «ne hai bisogno perché non hai ricevuto abbastanza amore e attenzione da tuo padre», diceva, e intanto mi raccomandava di non parlarne con nessuno.

Ci sono stati altri episodi?

Molti altri. Quando ha avuto la certezza che sarei entrata in comunità, ha cominciato a sfruttarmi sessualmente a suo piacimento. Durante il primo anno a Mengeš, padre Rupnik veniva per la guida spirituale e le confessioni; in quelle occasioni più volte mi disse che aveva una relazione sessuale anche con altre sorelle, menzionando ripetutamente il sesso a tre e chiedendomi se preferivo stare con una sorella e lui, oppure se desideravo essere sola con due uomini. Mi descriveva il nostro futuro rapporto a tre con ogni dovizia di particolari. Mi ricordo una volta che, dopo aver accompagnato due sorelle da Mengeš a Gorizia, si è fermato nel garage e ha cominciato a palpeggiarmi per poi masturbare sé stesso e me. Lo stesso anno mi ha scelta come aiuto nella direzione degli esercizi spirituali nel Monastero di Stična, soltanto per avermi più giorni a disposizione per fare sesso. Era il mio direttore spirituale e tutte in comunità mi ripetevano che dovevo essere umile e sottomessa: mi sentivo in trappola e non potevo parlarne con nessuno.

Durante la pasqua del 1988, mentre ero a Roma per studiare teologia, sono stata mandata da padre Rupnik a San Marco in Lamis, in Puglia, a casa di una donna che aveva frequentato per un periodo la Comunità Loyola. Rupnik mi aveva parlato a lungo di come lei lo ispirasse artisticamente quando, nel suo atelier si massaggiava i seni e si accarezzava davanti a lui. Ho capito ben presto che ero stata mandata a casa sua con lo scopo preciso di farmi istruire sul sesso a tre: lei si toccava e “giocava” con me a letto, parlandomi di come sarebbe stato con padre Rupnik e di come avremmo bevuto il suo sperma da un calice a cena. Io ero imbarazzatissima e totalmente bloccata, tanto che una sera lei ha chiamato Rupnik al telefono dicendogli che con me non c’era nulla da fare.

A quel punto che cosa è successo?

Padre Rupnik ha cambiato totalmente atteggiamento nei miei confronti e ha cominciato a trattarmi molto male: sono stata sfruttata, ignorata ed emarginata in comunità, e anche l’atteggiamento di Ivanka Hosta è cambiato radicalmente. Sono diventata una sorella di terza classe, considerata incapace di osservare l’obbedienza, di pregare e di essere umile: era il loro modo per dirmi che potevo solo servire le sorelle, guadagnare dei soldi, ma non avevo il diritto di parola. Sono stata umiliata, rimproverata e punita pubblicamente. Non sono riuscita a dire la causa della mia sofferenza e della mia confusione interiore, mi percepivo soltanto come un relitto emotivo ormai inutile.

Quando è riuscita a uscire da questa situazione?

Dopo anni di vessazioni da parte della superiora e delle sue “protette”, sono stata trasferita a Gerusalemme in una piccola sede della comunità e tre anni dopo l’ho lasciata definitivamente. Avevo 35 anni. 

Ha mai più parlato con Rupnik?

Una volta, poco prima di andarmene dall’Italia, l’ho affrontato durante gli esercizi spirituali e gli ho detto che mi aveva ingannata sin dal principio e che avevo capito il suo sistema: usava tutti i suoi doni di comprensione delle fragilità di ognuna di noi a suo vantaggio per avere prestazioni sessuali, usando una logica distorta dell’amore. Al contempo, quando trovava “resistenze”, come è successo a me, iniziava a compiere crudeli aggressioni psicologiche, emotive e spirituali che, insieme all’abuso fisico, distruggevano le persone.

E lui?

Ha negato tutto: è rimasto impassibile e mi ha risposto che non sapeva di che cosa stessi parlando.

 

«Partì da una mano sul sedere  per apprezzarne la forma»

Di Federica Tourn

Domani, 7 gennaio 2023

Sedicesima puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.

«In una mostra pubblica di Marko Rupnik a Maribor, in Slovenia, era esposto anche un quadro che ritraeva una donna poco vestita, in atteggiamento che sembrava sensuale. Questa cosa mi causò un certo sconcerto: si sapeva perfino chi di noi gli aveva fatto da modella, come se fosse una cosa normale».

Roberta (nome di fantasia), 54 anni, ha fatto parte della Comunità Loyola dal 1990 al 2000. Dalla sua testimonianza emerge chiaramente la sistematicità con cui il noto artista circuiva le giovani suore attraverso il plagio e l’abuso spirituale per ottenere favori sessuali, nell’indifferenza dei suoi superiori. Così come viene ben evidenziato a quali umiliazioni venissero esposte le donne che con fatica riuscivano a respingerlo. La comunità stessa era per Rupnik un sicuro bacino di coltura delle sue prede: non a caso molte ex religiose che abbiamo intervistato ricordano le pressioni ricevute dal gesuita per farle entrare nella “sua” congregazione.

L’abuso sessuale è però soltanto un aspetto dell’attitudine manipolatoria di Rupnik, che si estende ad ogni aspetto della vita delle persone su cui esercita la sua influenza. Anche chi, come Roberta, è riuscita a sottrarsi ai suoi approcci sessuali, ha dovuto fare i conti con le conseguenze di ripetute violenze psicologiche e spirituali.

Come ha incontrato Marko Rupnik?

Studiavo storia dell’arte all’università e una compagna di studi mi aveva invitato a una mostra di questo gesuita. Ci andai e lo conobbi in quell’occasione: ero alla ricerca di un approfondimento spirituale e quei quadri mi sembrarono significativi; inoltre lui mi notò e mi coprì di complimenti. Aveva un certo carisma, mentre io ero molto insicura. Accettai il suo invito a fare gli esercizi spirituali ignaziani e in pochi mesi lui, mostrando una platonica infatuazione per me, riuscì a manipolare la mia vocazione religiosa fino al punto da costringermi a entrare nella Comunità Loyola, che non avevo mai sentito nominare. Io ero orientata piuttosto verso un ordine tradizionale, come le suore francescane e le orsoline, ma Rupnik diceva che non andavano bene per me, e che ero destinata ad altro. In una messa a Stella Matutina, che allora era la residenza dei gesuiti a Gorizia, mi fece fare un giuramento solenne davanti a Dio che sarei entrata nella Comunità Loyola, un voto che per me doveva avere valore di voto eterno indissolubile. Io subìi e accettai, e da lì sono cominciati i miei dieci anni in Comunità, dolorosi e assurdi: un sacrificio inutile, sterile, senza frutto.

Qual era l’atteggiamento di Rupnik nei confronti delle suore?

Era apertamente ambiguo: per certi sguardi che ti rivolgeva, e per gli apprezzamenti che non ti aspetteresti da un prete. Un giorno, ero ancora una novizia, mi ha messo le mani sul sedere, commentandone compiaciuto la forma. Capivo che era sbagliato, ma lui mi confondeva perché ammantava tutto di un’aura spirituale e giustificava il suo interessarsi apertamente alle forme femminili con il suo essere artista, e perdipiù un artista a servizio della gloria di Dio. Ci ripeteva sempre la retorica del valore spirituale della femminilità, che lui esaltava anche negli aspetti propriamente estetici: per esempio, ricordo una sua “lezione” sull’importanza del colore bianco nella biancheria intima femminile e il suo invito a indossare camicette bianche un po’ trasparenti che lasciassero intravvedere il reggiseno, come segno sublime di purezza e bellezza spirituale. Inoltre, sebbene per allungare le mani avesse aspettato che fossimo soli, in generale il suo atteggiamento ambiguo avveniva alla luce del sole ed era esperienza normale in comunità, come presumibilmente altrove.

Rupnik quindi non agiva di nascosto?

Aveva uno stile comunicativo seduttivo e manipolatorio che era sotto gli occhi di tutti. Ricordo anche che una volta partecipammo all’inaugurazione di una sua mostra a Maribor in cui, oltre ai grandi volti di Cristo, c’erano vari quadri a tema femminile. Uno in particolare ritraeva una donna poco vestita, in un atteggiamento che sembrava sensuale. Questa cosa mi causò un certo sconcerto, ma apparentemente passò sotto traccia in comunità: si sapeva perfino chi di noi gli aveva fatto da modella; se Ivanka ebbe qualcosa da ridire, io non l’ho mai saputo. In quel momento pensai chiaramente che qualcosa non andava, ma se tutti la consideravano una cosa normale, mi dissi che a sbagliare dovevo essere io. Questo era il contesto in cui vivevamo, in cui Rupnik poteva muoversi indisturbato. Infatti, evidentemente, per lunghi anni nessuno lo ha fermato.

Rupnik tentò approcci sessuali con lei?

Una volta. Dato che non riuscivo ad adattarmi alla comunità, ad un certo punto mi trasferirono a Roma e mi mandarono in “cura” da Rupnik. In quel periodo lui mi aveva imposto di telefonargli ogni giorno, cosa che mi metteva in grande imbarazzo, perché in quelle telefonate lui diceva che io ero molto importante per lui, ma chiaramente non era vero. Inoltre dovevo recarmi periodicamente nel suo studio al Centro Aletti, dove lui mi sottoponeva a una specie di terapia psicologica: mi mostrava delle fotografie e io dovevo dire quello che mi facevano venire in mente: lui commentava, anche in un modo che mi feriva, facendomi piangere. Dentro di me pensavo che quella era una procedura improvvisata e che non era qualificato per farlo, ma lui era considerato da tutti nel nostro ambiente un genio, un profeta e un taumaturgo, per cui tenni per me quei dubbi. Al secondo o terzo appuntamento per questa presunta terapia lui volle baciarmi sulle labbra, dicendo che quello era «il bacio di guarigione del Signore». Reagii dicendogli che non volevo più proseguire la “cura” perché non ero sicura che lui sarebbe riuscito a fermarsi.

Dopo che cosa successe?

Io non ne parlai con nessuno ma lui si indispettì e questo mio rifiuto acuì per un certo periodo la riprovazione da parte sua e della comunità, perché adesso ufficialmente, oltre che “poco spirituale”, ero anche una che non portava a termine gli impegni presi e che lasciava le cose a metà. Dopo quella volta, però, non ci provò più con me. Anche se non ho subito molestie sessuali da parte di Rupnik, ho però sperimentato gravi forme di abuso psicologico e spirituale da parte sua e della comunità, perché si sono intromessi nel mio rapporto con Dio, distorcendolo e distruggendo in me ogni fiducia. Questa è una ferita ancora aperta, perché la mia vocazione religiosa era sincera.

Sapeva che aveva abusato di alcune sue consorelle?

No, non sospettavo minimamente che la situazione fosse così grave. Anche a proposito dell’allontanamento di Rupnik dalla comunità non ricordo alcuna ricerca di chiarimento da parte di Ivanka o delle sue fedelissime. Ci avevano detto che era una questione di difesa del carisma. Giravano voci che era successo qualcosa fra “Anna” e padre Marko, ma la chiave di lettura della comunità era che ciò accadeva per una qualche sua colpa. L’unica a essere trattata con riprovazione fu “Anna”, pubblicamente bollata dalla superiora come “infedele” e per questo obbligata per punizione a fare la cuoca nella casa a Mengeš, in Slovenia, per tutta la vita. Lei era visibilmente molto sofferente: quando riuscì a scappare dalla comunità e ci si rese conto che era sparita, una delle sorelle, che in seguito è diventata una colonna del Centro Aletti, ci mandò a cercarla dappertutto, «anche sotto i letti», lasciando intendere che avremmo potuto trovarla senza vita, come se l’ipotesi del suo suicidio fosse prevedibile e quindi razionalmente accettabile. Trovai questo fatto di una crudezza inaudita. Lasciare la comunità era considerato il male assoluto, peggio della morte.

Perché lei decise di andarsene?

Dopo dieci anni in comunità ero ammalata nel corpo, annientata nella psiche e ferita nello spirito. I miei dubbi venivano bollati da Ivanka come opposizione a Dio e intorno a me avvertivo solo riprovazione e condanna. Vivevamo in un clima di terrore, in cui non veniva controllato solo quello che facevi ma anche quello che pensavi. Bastava che non avessi fatto bene il letto perché la superiora ti dicesse che la tua anima non era pulita. Ero sottoposta a un costante giudizio privo di benevolenza e ho interiorizzato il disprezzo che avvertivo nei miei confronti come il disprezzo di Dio verso di me. Alla fine sono scappata e sono tornata dalla mia famiglia; grazie alle cure di mia madre sono riuscita a riprendermi e a ricostruirmi una vita. Non era affatto una cosa scontata, perché la comunità era rigorosa e determinata nel recidere il legame con la famiglia di origine e nel mio caso lo aveva fatto con mano particolarmente pesante. Oggi sono sposata e ho un lavoro ma il percorso di recupero è stato lungo e doloroso.

Ha provato a denunciare le violenze psicologiche che ha subito?

Dopo essere tornata a casa, sono andata con mia madre dal responsabile per le congregazioni religiose della mia città per raccontare quel che succedeva nella Comunità Loyola. Con la scusa che non era di pertinenza della sua diocesi, non volle nemmeno ascoltarci.

«Le nostre denunce su Rupnik e il muro di gesuiti e Vaticano»

Di Federica Tourn

Domani, 29 dicembre 2022

Quindicesima puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.

Una nuova testimonianza aggrava la posizione di Marko Rupnik, il noto teologo e artista al centro dello scandalo per abusi su diverse suore in Slovenia e a Roma. Dopo “Anna”, che ha rivelato a Domani le violenze subite dal gesuita quando era una religiosa della Comunità Loyola, Ester (nome di fantasia), oggi 60 anni, all’epoca segretaria della madre superiora Ivanka Hosta, racconta le repressioni messe in atto nella Comunità e il silenzio dei gesuiti e della Chiesa. Le stesse autorità ecclesiastiche che oggi si dicono addolorate per le vittime e che affermano di non essere state al corrente dei fatti, in realtà più volte segnalati nel corso degli anni.

Quando è entrata nella Comunità Loyola?

Sono stata fra le prime: a Lubiana nel 1984 si era costituito un gruppo di quattro sorelle da cui tre anni dopo ha avuto origine la Comunità. Nell’88 eravamo già in venti: io allora avevo 25 anni ed  ho preso i voti perpetui insieme ad altre sei sorelle, fra cui la superiora Ivanka Hosta, mentre le altre hanno emesso i voti per tre anni con l’impegno di ripeterli nel ’91, in occasione dei 400 anni della nascita di Ignazio di Loyola.

Qual era il rapporto fra Marko Rupnik, Ivanka Hosta e le sorelle della comunità?

Rupnik ci diceva che Ivanka aveva il carisma ma non lo sapeva trasmettere: solo lui poteva interpretare questo suo dono e trasmetterlo a noi sorelle. In questo modo costruiva un muro tra Ivanka e le altre suore della Comunità, che non riuscivano a confidarsi con lei. Padre Rupnik le ha legate a sé e non ha permesso una relazione sincera tra Ivanka e le altre sorelle. Pian piano è diventato questo lo stile dei rapporti tra di noi.

Com’era la vita nella comunità slovena?

Io ho vissuto con grande gioia i primi cinque anni di vita in comune e pensavo che anche per le altre sorelle fosse lo stesso. Ero del tutto ignara della sofferenza nascosta e degli abusi che subivano alcune di loro. Tutto è cambiato nel 1989 quando, dopo gli studi di teologia, sono stata mandata a Roma a studiare diritto canonico e a lavorare a Radio Vaticana. Qualcosa si è incrinato dentro me. Credevo che il problema fosse la stanchezza o l’immersione in un nuovo ambiente, con altre abitudini, ma anni dopo ho capito che l’inizio del mio buio era dovuto a padre Rupnik. Già negli anni vissuti a Mengeš, in Slovenia, mi vietava di vivere l’amicizia profonda che avevo con una delle sorelle, dicendomi che era una dipendenza insana, un segno di egoismo; a Roma poi mi ordinò di tagliare del tutto i ponti con lei. Questa esperienza ha cambiato il modello delle mie relazioni: non c‘era niente di stabile nei rapporti che avevamo, non c’erano più amicizie. Non solo: padre Rupnik ci chiese di scrivere una lettera ai nostri genitori e alla nostra famiglia in cui comunicavamo che per un anno non avremmo più avuto nessun rapporto con loro: niente visite, lettere o telefonate. Io in particolare dovevo scrivere quanto fossi preoccupata per la loro salvezza, elencare i loro difetti all’origine di questa preoccupazione. La lettera mi sembrava troppo dura ma la sorella che doveva “approvarla” aggiunse anche altre cose, ancora più tremende. Ho dovuto spedire la lettera e ancora oggi porto in me il ricordo amaro del loro dolore.

Quando ha saputo degli abusi sessuali di Rupnik?

Nel ’93, quando ci sono state le prime denunce alla madre generale. “Anna” ha parlato di quello che era successo con padre Marko e prima di lei era andata da Ivanka l’altra sorella con cui Rupnik aveva avuto il rapporto a tre, a Roma. Da quel momento molte altre sono venute da me a dirmi che erano state abusate da Rupnik e io dicevo loro di rivolgersi a Ivanka, perché era la superiora. Erano anni che le vedevo piangere, già dal 1985, ma solo in quel momento ho capito il motivo, per me prima inimmaginabile.

Che cosa è successo quando “Anna” ha deciso di denunciare apertamente Rupnik alle autorità ecclesiastiche?

Rupnik è stato allontanato dalla Comunità dall’arcivescovo di Lubiana Alojzij Šuštar. Ricordo che io stessa ho avuto l’incarico di portare tutti i suoi quadri al Centro Aletti a Roma. Era furioso.

Hosta come spiegò la sua partenza?

Radunò le sorelle e disse che Rupnik era stato mandato via perché voleva impossessarsi del carisma della Comunità e farsi passare da fondatore, ma noi del Consiglio che le eravamo più vicine conoscevamo il vero motivo. Così come lo sapeva il vescovo Šuštar e padre Lojze Bratina, all’epoca provinciale sloveno dei gesuiti. A padre Bratina avevo raccontato tutto io stessa ma lui mi aveva risposto che non ci credeva.

Da quel momento che cosa è successo?

La Comunità ha cominciato a funzionare come una vera e propria setta. Ivanka, credo per paura che la notizia degli abusi di Rupnik uscisse in qualche modo e compromettesse il futuro della comunità, ha taciuto e ha assunto con noi un atteggiamento totalmente repressivo e controllante. Non si dovevano più salutare gli amici di padre Rupnik o coloro che lo frequentavano, non si poteva più liberamente scegliere il confessore e neanche dirgli tutto. Veniva pure verificato che cosa avevamo detto in confessione e le risposte date dal confessore. La guida spirituale poteva essere soltanto una sorella della Comunità: o era la superiora stessa o, con il suo permesso, un’altra sorella. Il contenuto della preghiera personale doveva essere condiviso con le altre e Ivanka si attribuiva il diritto di giudicare quando una preghiera era genuina e quando non lo era. La sorella che non pregava bene spesso doveva insistere in cappella finché non pregava come voleva Ivanka, altrimenti veniva segnalata come persona in crisi, il che era sempre considerato una colpa, una chiusura nei confronti di Dio. La libertà personale era quasi completamente azzerata. A causa di questo clima buio e minaccioso la Comunità si è dimezzata: nel giro di pochi anni siamo uscite in 19, una addirittura è scappata dalla finestra.

Ci sono state reazioni da parte dei gesuiti o della Chiesa in generale?

Nessuna. Non uno che si sia interessato, almeno ufficialmente, della separazione fra Ivanka Hosta e padre Rupnik e della successiva disgregazione della Comunità. Nel ’98 sono andata in curia dai gesuiti e ho raccontato tutto di nuovo, stavolta al delegato per le case internazionali a Roma padre Francisco J. Egaña, ma ancora una volta non è successo niente. Dopo, per anni, ho vissuto con una grande ferita senza più avere rapporti con nessuna finché, prima del lockdown, ho incontrato una ex sorella che mi ha detto che la Comunità era stata commissariata.

Che cosa ha fatto dopo essere uscita dalla Comunità Loyola?

Lavoravo già in un’università cattolica a Roma. Al momento delle mie dimissioni dalla comunità, Ivanka è andata dal mio superiore per dirgli di sostituirmi con un’altra sorella: per fortuna si è rifiutato.

È in contatto con le sorelle che attualmente vivono nella comunità?

Con qualcuna. Molte hanno seri problemi fisici e psichici a causa delle violenze psicologiche e spirituali che hanno subìto. Alcune assumono farmaci che le devastano: una l’ho rivista ad un funerale e non l’ho nemmeno riconosciuta, tanto era segnata dall’effetto delle medicine. Prima Marko e poi Ivanka sono riusciti a togliere loro quel poco di autostima che avevano.

Per appoggiare la denuncia di “Anna”, lo scorso giugno lei ha scritto una lettera sugli abusi di Rupnik indirizzata ai gesuiti e a diverse personalità della Chiesa, dal prefetto del Dicastero per la dottrina della fede Luis Ladaria al cardinale vicario di Roma Angelo De Donatis. Qualcuno le ha risposto?

Nessuno. E dire che molti di loro li conosco personalmente.

La conferenza espiscopale slovena il 21 dicembre ha detto che prova “dolore e costernazione” per gli abusi, “rimasti ignoti per tanti anni”. È così?

All’epoca tanti erano al corrente dei fatti, dal vescovo di Lubiana al provinciale dei gesuiti fino al fondatore del Centro Aletti, il teologo Tomáš Špidlík. Nemmeno oggi i vescovi sloveni possono dire che non sapevano: “Anna” ed io abbiamo spedito via pec le nostre lettere anche all’attuale arcivescovo di Lubiana Stanislav Zore, al provinciale sloveno padre Miran Žvanut e a padre Milan Žust, superiore della Residenza della Santissima Trinità al Centro Aletti di Roma, che è anche il superiore di padre Rupnik. Non credevano che saremmo andate tanto avanti nella denuncia pubblica e hanno detto mezze verità per cercare di cavarsela.

Sia i vescovi sloveni che il cardinale De Donatis ora condannano gli abusi ma invitano a distinguere fra i peccati di Rupnik e ciò che ha espresso con la sua arte. Che cosa ne pensa?

L’arte è espressione di quel che lui insegna, riflette la sua personalità. Non si può dire che l’arte e il ministero sono due cose separate, Rupnik stesso ha sempre sottolineato che sono due elementi intimamente connessi. Finché la Chiesa non capisce che l’essere abusatore di padre Rupnik è legato al suo essere artista, continuerà a minimizzare la gravità di quel che è successo.

Nuove accuse al gesuita Rupnik: si allarga lo scandalo che sta scuotendo la chiesa

Di Federica Tourn

Domani, 23 dicembre 2022

Quattordicesima puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.

Padre Marko Rupnik, il noto artista accusato di aver abusato di alcune suore negli anni ’90 e inchiodato dalla testimonianza di una ex religiosa (pubblicata su Domani il 18 dicembre), continua a causare lotte intestine fra i gesuiti e imbarazzo in Vaticano. Lo “tsunami Rupnik”, come l’ha definito su twitter l’ex provinciale gesuita Gianfranco Matarazzo, diventa sempre più imponente e minaccia di travolgere non soltanto la Compagnia ma la Chiesa tutta. Un’altra religiosa della Comunità Loyola ha detto alla Catholic News Agency di aver subito manipolazioni e umiliazioni spirituali da Rupnik: «era una persona egocentrica e violenta: voleva sempre essere al centro dell’attenzione e sottomettere gli altri al suo potere». «Le autorità ecclesiastiche hanno sempre coperto tutto – ha confermato la suora – ma gli abusi non si limitano certo soltanto alla Comunità Loyola».

Dopo le rivelazioni della stampa, i gesuiti sono stati però costretti ad ammettere che Rupnik aveva subìto ben due procedimenti ecclesiastici: uno da parte del Dicastero per la dottrina della fede, concluso lo scorso ottobre con la prescrizione dei fatti, e un altro nel 2020 sempre davanti allo stesso Dicastero (all’epoca Congregazione per la dottrina della fede) per “assoluzione del complice in confessione”. Un comportamento che aveva portato a una sentenza di scomunica latae sententiae, vale a dire immediata. Scomunica che, come è stato confermato dai gesuiti, era stata però revocata pochi giorni dopo dalla stessa Congregazione. Chi ha voluto cancellare le conseguenze di un reato considerato talmente grave da prevedere una condanna automatica? L’ordine è partito da papa Francesco? Difficile pensare che il pontefice non fosse a conoscenza dei fatti che coinvolgevano una persona in vista come Rupnik.

Certo è che, pur sotto indagine e nonostante le restrizioni che la Compagnia gli aveva imposto già nel 2019 (misure cautelari ancora in vigore, secondo quanto riportato dal preposito generale dei gesuiti Arturo Sosa Abascal), Rupnik non ha smesso di viaggiare, condurre esercizi spirituali ed esercitare incarichi importanti in diversi dicasteri vaticani. Fino al 2020 era direttore del Centro Aletti e in agenda aveva anche la direzione degli esercizi spirituali al Santuario della Santa Casa di Loreto per il febbraio 2023. Insomma, molti nella Chiesa erano a conoscenza dei suoi “problemi comportamentali” ma Rupnik, nonostante le denunce e le indagini interne, ha continuato a esercitare il suo ministero e a ottenere apprezzamenti come niente fosse. A fine novembre 2022 ha ricevuto anche una laurea honoris causa dalla Pontificia università cattolica del Paranà, in Brasile, e ad oggi risulta ancora consultore del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione.

Intanto qualcosa, almeno apparentemente, si muove. Sul sito della curia generalizia della Compagnia di Gesù è comparso il 18 dicembre un appello in cui si invita chiunque voglia denunciare nuovi fatti a rivolgersi direttamente ai gesuiti tramite una mail apposita. Lo stesso ha fatto pochi giorni dopo la conferenza episcopale slovena, che il 22 dicembre ha espresso «grande dolore e costernazione» e «vicinanza alle vittime». Una dichiarazione sottoscritta anche dal presidente dei vescovi sloveni, monsignor Andrej Saje, e dall’arcivescovo di Lubiana Stanislav Zore, che hanno auspicato maggiore trasparenza e tolleranza zero nei confronti di ogni abuso, fisico, sessuale, psichico e spirituale. Una parte dell’attuale chiesa slovena, cresciuta alla scuola di Rupnik e del Centro Aletti, è oggi infatti alle prese con un travaglio interno particolarmente acuto a causa dello scandalo. I vescovi sloveni si sono detti dalla parte delle vittime, «rattristati perché per decenni non sono state ascoltate», e hanno promesso di fare «del loro meglio per seguire con maggiore attenzione ciò che accade nelle comunità ecclesiali, affinché in futuro non avvengano più abusi di autorità da parte di chi ha incarichi di responsabilità».

Da parte sua, il vescovo ausiliare di Roma Daniele Libanori, commissario incaricato della comunità Loyola dove sono avvenuti gli abusi, ha confermato in una lettera ai sacerdoti che «le notizie riportate dai giornali corrispondono al vero». «Le persone ferite e offese, che hanno visto la loro vita rovinata dal male patito e dal silenzio complice – scrive Libanori – hanno diritto di essere risarcite anche pubblicamente nella loro dignità, ora che tutto è venuto alla luce». Se sul “caso Rupnik” sia davvero emerso tutto, è però ancora da vedere.

Foto di Žiga : la cattedrale di Lubiana

I baci nel nome dell’eucarestia e il sesso a tre per imitare la Trinità, parla la suora vittima di Rupnik

Di Federica Tourn

Domani, 18 dicembre 2022

Tredicesima puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.

«La prima volta mi ha baciato sulla bocca dicendomi che così baciava l’altare dove celebrava l’eucaristia, perché con me poteva vivere il sesso come espressione dell’amore di Dio». Questo è l’inizio della particolareggiata testimonianza della violenza sessuale, psicologica e spirituale che Anna (nome di fantasia), una ex religiosa italiana della Comunità Loyola, ha subito per nove anni da parte del gesuita Marko Rupnik, non soltanto in Slovenia ma anche in Italia. Rupnik, teologo e artista noto in tutto il mondo, è oggi al centro di uno scandalo per l’accusa di abusi nei confronti di alcune suore, come abbiamo raccontato nei giorni scorsi su Domani. Anna, arrivata quasi al suicidio a causa delle sofferenze causate dal delirio di onnipotenza e dall’ossessione sessuale del gesuita, ha denunciato più volte il suo abusatore nel corso degli anni ma la Chiesa ha sempre coperto tutto. Continua a leggere “I baci nel nome dell’eucarestia e il sesso a tre per imitare la Trinità, parla la suora vittima di Rupnik”

Pedofilia nella Chiesa, il caso Spotlight continua a Roma vent’anni dopo

Di Federica Tourn

Domani, 11 dicembre 2022

Dodicesima puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.

È una limpida mattina romana di metà febbraio quando monsignor John Anthony Abruzzese, originario di Boston e canonico della Basilica papale di Santa Maria Maggiore all’Esquilino, viene convocato nell’ufficio del Commissario straordinario della Basilica, monsignor Rolandas Makrickas. Ad attenderlo trova l’arciprete della Basilica, il cardinale Stanisław Ryłko, e il suo vicario, l’arcivescovo Piero Marini, che gli consegnano una lettera da parte del Sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato della Santa Sede Edgar Peña Parra. Le notizie non sono buone: Abruzzese è appena stato licenziato sui due piedi e deve tornarsene a casa, in Massachusetts. Il motivo non viene esplicitato, ma la lettera lascia intendere che la causa sia da ricercare nel fatto che Abruzzese, all’interno della basilica vaticana, divide l’alloggio con un ragazzo appena maggiorenne. Questo ragazzo, chiamiamolo Roberto, non è però un ventenne qualunque ma ha alle spalle una storia agghiacciante di pedofilia: è stato infatti abusato per nove anni da un prete e soltanto da poco si è deciso a denunciare. Continua a leggere “Pedofilia nella Chiesa, il caso Spotlight continua a Roma vent’anni dopo”

L’8 per mille ai preti pedofili, i soldi dei fedeli usati per aiutare il sacerdote accusato di molestie

Di Federica Tourn

Domani, 14 novembre 2022

Undicesima puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.

I vescovi italiani usano i fondi statali dell’8 per mille anche per tutelare i sacerdoti accusati di pedofilia, come se le denunce delle vittime e i processi che ne conseguono fossero una persecuzione contro la Chiesa cattolica. E questi pedofili protetti sono numerosi, più di quelli rilevati dalla giustizia dello stato. È l’imbarazzante realtà che sta emergendo dal processo per violenza sessuale su minori (articoli 81 e 609 bis del codice penale) a carico di don Giuseppe Rugolo, in corso al tribunale di Enna. Continua a leggere “L’8 per mille ai preti pedofili, i soldi dei fedeli usati per aiutare il sacerdote accusato di molestie”

«Così don Luigi ci ha molestati per anni davanti a tutti»

Di Federica Tourn

Domani, 23 ottobre 2022

Decima puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.

Salgono a tre i bambini abusati da monsignor Luigi Gabbriellini, parroco di Santa Maria madre della Chiesa e Santa Marta a Pisa, attualmente sottoposto a processo canonico. La vicenda è emersa dopo la denuncia al vescovo di Pisa Giovanni Paolo Benotto da parte di due fratelli, come abbiamo raccontato su Domani del 21 settembre. In una nota ufficiale del 15 settembre, monsignor Benotto aveva chiesto perdono a nome della Chiesa pisana per lo scandalo che aveva coinvolto il sacerdote, nome di spicco all’interno della diocesi, e ne aveva accettato le dimissioni. Ora, un cugino alla lontana dei due fratelli si è rivolto al Servizio diocesano per la Tutela dei minori per segnalare di essere stato anche lui molestato dal sacerdote.

Giulio, 39 anni, suo fratello Davide, 35, e il cugino Luca, di 33, hanno deciso di raccontare a Domani i fatti accaduti più di vent’anni fa, quando don Luigi era parroco della chiesa di Santo Stefano extra moenia a Pisa. I nomi sono di fantasia: le vittime hanno chiesto l’anonimato per non esporre le famiglie alle ripercussioni mediatiche. «Vogliamo rendere nota la nostra storia non soltanto per un desiderio di verità ma anche per evitare che quello che abbiamo sofferto possa accadere ad altri bambini», precisa Giulio, che si è deciso a denunciare la violenza quando ha scoperto che anche il fratello era stato abusato dal prete amico di famiglia. «Ancora oggi non riesco a perdonarmi di aver permesso a questo prete di officiare il mio matrimonio e il battesimo della mia prima figlia – spiega Giulio – vivevo in una bolla che è finalmente scoppiata quando ho parlato con mio fratello e mi sono reso conto di non essere il solo a portare questo peso».

Davide, che oggi vive all’estero, aveva mandato una mail al prete un anno e mezzo fa, in cui gli chiedeva conto dell’abuso subito quando era piccolo: «mi ha risposto che non era stato lui e che si trattava di un caso di omonimia», racconta. Invece, è proprio il don Luigi giusto, come è stato confermato espressamente dal vescovo ai due fratelli. «Monsignor Benotto in primavera ci disse che don Gabbriellini aveva confessato e di non preoccuparci perché lo avrebbe tenuto lontano dai bambini – afferma Giulio – invece il prete ha celebrato le comunioni e le cresime in parrocchia come se nulla fosse».

L’investigatio previa sul sacerdote, avviata a fine aprile, è tuttora in corso, ma il vescovo ha assicurato via mail a Giulio che a breve il dossier verrà mandato in Vaticano al Dicastero per la dottrina della fede. Le vittime, però, non hanno più fiducia nella giustizia ecclesiastica: «da quando la storia è uscita sui giornali, il vescovo, prima molto sollecito nei confronti miei e di mio fratello, ha preso le distanze», spiega ancora Giulio.

I rapporti fra monsignor Benotto e i due fratelli si raffreddano ulteriormente quando a settembre le vittime vengono a sapere da amici, che frequentano la parrocchia di Santa Maria della Chiesa e Santa Marta, che don Luigi si sta preparando a lasciare l’incarico. «Eravamo preoccupati che lo facessero sparire senza una spiegazione», dice Giulio. «Quando ci siamo incontrati – aggiunge – il vescovo ci disse che, a seconda della gravità della sentenza, don Luigi poteva essere ridotto allo stato laicale, o destinato altrove, o mandato a occuparsi di una casa di riposo: quest’ultima opzione monsignor Benotto la definì la peggiore punizione per un prete».

Evidentemente, stare in mezzo a chierichetti e bambini dell’oratorio è considerato più gratificante che occuparsi della pastorale degli anziani. Certo è che don Gabbriellini in parrocchia si trovava bene: era stimato e rispettato da tutti, tanto che non faticava a stringere legami di amicizia con i fedeli, rapporti che continuavano anche fuori dalla chiesa. In casa dei due fratelli, infatti, don Luigi viene spesso invitato a cena e con la famiglia condivide vacanze e giorni di festa. Il fatto che giochi con i bambini e li faccia ballare sulle ginocchia è vista come una cosa normale, il segno della confidenza e dell’affetto di uno “zio” che li frequenta abitualmente. D’altronde è un amico intimo: ha la fiducia totale dei genitori e anche la riconoscenza, visto che è sempre lui che presta loro del denaro in un momento di difficoltà economiche.

Questa aura di prete buono, sempre presente e disponibile ad aiutare in caso di bisogno, getta fumo negli occhi dei parrocchiani, che vedono quello che vuole lui e non quello che fa ai bambini. Eppure lui non si nasconde ma, anzi, arriva ad accarezzare i piccoli sotto la maglietta di fronte a tutti in chiesa o durante le gite della parrocchia. Nessuno trova da ridire: «sono convinto che con questi gesti volesse normalizzare la sua propensione a toccare i bambini – riflette Giulio – era una strategia per abituare le persone a vederlo vicino ai piccoli». Un’intera comunità pare sotto l’incantesimo di questo prete: non uno, in Santo Stefano, sembra notare qualcosa di strano nel suo comportamento, nemmeno gli altri sacerdoti. «Ho chiesto a un altro prete se si fosse accorto delle inclinazioni pedofile di don Luigi – riferisce Luca – ma lui mi ha risposto subito di no». Salvo poi ricordarsi qualcosa: «in seguito mi ha detto che in effetti aveva visto don Luigi mettere una mano sotto la maglia a un ragazzino mentre lo confessava».

Questo modus operandi di avvicinamento graduale ai minori, fino a instaurare un rapporto di disinvolta confidenza con loro in contesti rassicuranti come la famiglia o le attività ricreative organizzate dalla chiesa, permette al prete di molestare per anni i bambini, praticamente davanti agli occhi dei parrocchiani e degli stessi genitori. Luca racconta che il suo abuso è avvenuto nel 1997, quando aveva appena otto anni, durante una gita della chiesa in un paese di montagna: «ero seduto sulle sue ginocchia e don Luigi all’improvviso mi ha toccato i genitali – dice – i miei erano a trenta metri da noi, insieme a un altro gruppo di genitori». Un’esperienza simile è toccata a Davide: «eravamo in sala da pranzo, seduti al tavolo, e io ero seduto sulle ginocchia di don Luigi: i miei piedi non toccavano terra, avrò avuto otto o nove anni al massimo – ricorda – i miei genitori erano seduti dall’altra parte del tavolo e parlavano con il prete, che intanto aveva la mano nei miei pantaloni». Una tortura che va avanti per più di mezzora: «la tovaglia nascondeva le nostre gambe – aggiunge Davide – io ero congelato ma i miei genitori erano presenti e ho pensato che non c’era niente di male».

Monsignor Gabbriellini non si limita a una volta sola. Davide è chierichetto e il prete coglie ogni occasione per insidiarlo: «ci trovavamo il sabato pomeriggio e io non avevo voglia di andare in parrocchia, perché sapevo che sarei rimasto da solo con lui in sacrestia – dice – cercava sempre di baciarmi e ancora oggi potrei riconoscere l’odore del suo dopobarba». Gli assalti del sacerdote a Davide sono andati avanti dal 1995 fino al 2000, quando il ragazzo ha lasciato Santo Stefano. Il maggiore dei fratelli, Giulio, invece è stato abusato più volte nel 1994, quando aveva undici anni; le molestie sono poi continuate fino al ’97, soprattutto durante i campi estivi e una volta in occasione di un colloquio personale. Il prete utilizzava il suo ascendente sui ragazzi per favorire le occasioni propizie alle molestie: «era dispotico, sapeva imporsi ed esercitava una grande influenza nella vita delle persone – spiega Giulio, che è stato chierichetto e catechista – noi ragazzi eravamo in soggezione e lui ne approfittava per entrare in intimità con noi». È un progressivo varcare dei confini: «prima ti abbracciava, poi ti prendeva in collo e lì già sapevi come sarebbe andata a finire». Il predatore conosce bene il suo territorio di caccia, dove si muove con disinvoltura: «individuava con precisione i bambini più vulnerabili e si dedicava a loro con costanza, li faceva sentire importanti – dice ancora Giulio – era una tattica: chi subiva abusi riceveva più attenzioni degli altri».

Oggi non si sa dove si trovi monsignor Gabriellini. Subito dopo la denuncia al vescovo, Giulio ha detto tutto a parenti e amici e, in soli due giorni, in tre lo hanno cercato per raccontargli che a loro era successa la stessa cosa: «mio cugino Luca e un’altra persona mi hanno riferito di essere stati abusati da don Gabbriellini e una terza vittima ha invece parlato di un altro prete in provincia di Pisa», dichiara Giulio. La responsabile del Servizio per la Tutela dei minori e degli adulti vulnerabili, suor Tosca Ferrante, il 19 settembre affermava che non c’erano altri casi di abuso nella diocesi oltre ai due fratelli; contattata da Domani il 18 ottobre per un aggiornamento, non ha risposto.

Giulio, Davide e Luca a breve chiederanno il risarcimento in sede civile. Invitano altre persone che abbiano informazioni di fatti recenti che riguardano don Gabbriellini a rivolgersi alla Rete L’Abuso per poter presentare un’istanza che accerti che il prete sia in condizioni di non nuocere ad altri bambini. «Nella condotta compulsiva di queste persone si riscontra un pericolo per la collettività – spiegano le vittime – e dato che conosciamo bene la prassi dei vescovi di spostare i preti pedofili in altre parrocchie, vogliamo evitare che continui ad essere a contatto con i minori».

Il mea culpa del vescovo di Pisa sul prete accusato di pedofilia

Di Federica Tourn

Domani, 21 settembre 2022

Nona puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.

«A nome mio e della Chiesa pisana che rappresento, chiedo perdono a chi ne è stato vittima e a quanti ne soffrono per lo scandalo che oscura il volto della Chiesa». Sono parole forti quelle scelte dal vescovo di Pisa Giovanni Paolo Benotto per comunicare che ha accettato le dimissioni di don Luigi Gabbriellini, 74 anni, e che il prete è al momento sotto processo canonico con l’accusa di abuso sessuale e molestie a danno di minori. Il fatto che monsignor Benotto usi l’indicativo in riferimento alle vittime, e la scelta di non menzionare nemmeno una volta nel comunicato la presunzione di innocenza dell’accusato fino alla conclusione del processo, non danno per una volta adito a dubbi sulle responsabilità del sacerdote, che infatti si è dimesso.

Nella nota della diocesi, diffusa il 15 settembre, il nome non non viene fatto ma è non è certo un segreto, dato che nel comunicato monsignor Benotto ha la correttezza di indicare l’ultimo incarico del prete, fino a pochi giorni fa parroco di Santa Maria madre della Chiesa e Santa Marta a Pisa. Don Luigi è dunque finito davanti al tribunale ecclesiastico per aver violentato una ventina di anni fa due fratelli, all’epoca dei fatti di 9 e 13 anni. Le due vittime, oggi adulte, hanno segnalato al Servizio diocesano per la Tutela dei minori gli abusi subiti e nell’aprile scorso, «appena è stata ricevuta la denuncia», sottolinea il vescovo, il processo è stato avviato e il sacerdote temporaneamente sospeso dalle sue funzioni fino all’esito del procedimento.

C’è mancato poco, però, che riuscisse a farla franca. Infatti – come racconta una fonte interna alla Chiesa – da giorni erano già pronti sul tavolo del vescovo ben due comunicati sul conto di don Luigi, ben diversi uno dall’altro. Uno annunciava il congedo del prete dalle parrocchie per motivi di salute e l’altro, quello che poi è uscito, comunicava con dolore e costernazione il vero motivo delle avvenute dimissioni. Qui, però, è successo l’imprevisto: una delle due vittime ha accusato direttamente il prete sul suo profilo Facebook (poi oscurato). Il clamore seguito al post ha portato il vescovo, per tutelare il buon nome della diocesi, a fare pubblica ammenda e a rendere noto il processo canonico in corso a carico di don Luigi.

Ora il suo posto è stato prontamente preso da un altro sacerdote, don Lucasz Kostrzewa, arrivato in fretta e furia da Barga, in provincia di Lucca. Don Lucasz, come scrive il parroco di Barga monsignor Stefano Serafini sul Giornale di Barga, sapeva già da mesi, allertato dal vescovo, di dover essere trasferito in un’altra comunità della diocesi, e sabato scorso ha preso immediatamente servizio nell’unità pastorale del parroco dimissionario.

Lo scandalo è però soltanto all’inizio ed è destinato a dare ancora molte preoccupazioni al vescovo di Pisa. Infatti, non s il Servizio diocesano per la tutela dei minori sta verificando la veridicità della segnalazione di un’altra vittima di don Luigi, ma alla Rete l’Abuso, associazione dei sopravvissuti agli abusi sessuali del clero, sono arrivati in questi giorni dei messaggi di denuncia a carico di un altro sacerdote della diocesi. In uno di questi, infatti, una ex parrocchiana accusa un altro prete  di averla molestata: «Ho 58 anni e vivo a Pisa – si legge nel messaggio – quando avevo 12 anni, don Paolo (nome di fantasia) mi accompagnò in canonica e si fermò nel corridoio, mi spinse contro il muro e cominciò a palpeggiarmi ovunque. Io ricordo che ero un pezzo di marmo, ma credevo fosse legittimo». «Ho provato a dirlo – continua – ma ho trovato un muro di gomma. Quello che fa più male, a parte l’esperienza in sé, è l’omertà di tutta la comunità parrocchiale, non solo del parroco e dei preti».

È un fatto che don Gabbriellini non è stato sospeso ad aprile, quando è arrivata la denuncia al Servizio diocesano ed è iniziato il conseguente processo canonico, ma ha continuato a occuparsi delle parrocchie fino alla settimana scorsa. Ha persino celebrato le comunioni dei bambini a maggio, come segnala indignata un’altra fedele: «sono arrabbiata e triste perché se la curia sapeva, avrebbe dovuto sospenderlo in attesa delle decisioni del tribunale – scrive una madre alla Rete L’Abuso – pensare che è quest’uomo che ha dato la prima comunione a mio figlio mi fa vomitare».

Sotto il profilo della responsabilità penale, i fatti al vaglio dell’indagine ecclesiastica sono ormai prescritti, ma i due fratelli potrebbero decidere di rivolgersi alla giustizia civile, dove i termini per la prescrizione sono diversi, e chiedere un risarcimento al prete per gli abusi subiti.

Don Luigi Gabbriellini, oltre alla funzione di parroco, ricopriva anche altre mansioni di rilievo nella diocesi, fra cui quella di amministratore parrocchiale della chiesa di San Matteo e vicario episcopale della città di Pisa. Decaduto da tutti gli incarichi, il sacerdote non è al momento reperibile.

Foto di Elias Rovielo

La suora che ha denunciato il sacerdote che la stuprava

Di Federica Tourn

Domani, 19 settembre 2022

Ottava puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.

«Sono stata violentata per la prima volta a 24 anni da un sacerdote di quasi vent’anni più vecchio di me. Non soltanto era il mio superiore ma era anche il responsabile della congregazione. Non avevo mai sentito parlare di preti che si approfittano delle suore: per me, semplice novizia, fu uno choc».

Quando nel 2003 entra nella Famiglia Spirituale l’Opera, una comunità di vita consacrata fondata dalla belga Julia Verhaeghe e riconosciuta da Giovanni Paolo II nel 2001, Doris Wagner è una ragazza tedesca di 19 anni, piena di entusiasmo all’idea di dedicare la propria vita a Dio. Al Collegium Paulinum di Roma, sede della congregazione, sacerdoti e suore vivono insieme sotto lo stesso tetto e, anche se hanno mansioni diverse, si incontrano per la messa o durante i pasti. La realtà della vita comunitaria si rivela subito difficile: l’Opera le chiede di rinunciare alla famiglia, agli amici, le proibisce anche la lettura «per farla crescere in umiltà». Doris non viene messa al corrente di nulla, non sa nemmeno quando prenderà i voti perpetui. «Ci trasferivano da un paese all’altro senza preavviso e ci spostavano addirittura di stanza senza una spiegazione», conferma Wagner. Stringere amicizie è impossibile anche fra consorelle: «spinta dalla devozione, ci rassegnavamo a vivere in solitudine – spiega  – la nostra vita era completamente nelle mani della comunità». Continua a leggere “La suora che ha denunciato il sacerdote che la stuprava”