Vite trascurabili

Un blog per raccontare di chi non è famoso e non finisce in prima pagina, di chi viene sfuocato nelle fotografie e passa inosservato nella folla, di chi non sta su wikipedia e non ambisce nemmeno ad esserci. Sono segni sul muro di una prigione, sassi sulla strada a segnare un sentiero, uomini e donne ignorati dalla grande Storia ma a volte capaci di scartare di lato e fare scelte che portano cambiamenti. Il giornalismo è anche fare memoria delle nostre fuggevoli vite trascurabili.

Catherine G.

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«Non è che immaginassi questo alla mia età, anzi, avevo voglia di tutt’altro. Ma quando ti trovi sotto casa dei ragazzini, perché per me sono ragazzini, che hanno freddo e fame, che fai? Non li prendi in casa?».

Seduta al tavolo della cucina, Catherine parla senza quasi alzare lo sguardo dai porri e dalle carote che sta affettando. Fuori, il sole invernale del primo pomeriggio scava le montagne della val Roja, lì dove le rocce si trasformano in gole scavate dal fiume. Nella stanza accanto quattro ragazzi eritrei stanno finendo di mangiare gli spaghetti; quando ci vedono arrivare la loro espressione perplessa si allarga in un sorriso timido.

«Sanno appena qualche parola di inglese, comunicare non è facile», scuote la testa Catherine. Sono a casa sua da due settimane, non escono mai per paura di essere intercettati dalla polizia e rimandati in Italia. Non si affacciano nemmeno alla finestra, per paura che qualcuno li veda. «Sono costretta a fare la spesa in un altro paese: ti immagini se qui mi vedono comprare due chili di banane quando tutti sanno che vivo da sola? Ma tanto lo sanno lo stesso. Capirai, un comune di tremila abitanti che d’inverno ne vede sì e no trecento». «Ci prendono per dei gauchistes che aiutano i terroristi», aggiunge con una smorfia.

Non è espressamente vietato ospitare qualcuno, ma ciò non toglie che si tratta di stranieri senza permesso di soggiorno. «Maggiorenni, per di più – sottolinea Catherine – Il che significa che non possono nemmeno fare domanda di asilo come minori non accompagnati. Anche se hanno soltanto vent’anni e sono reduci da un viaggio terribile, in cui hanno visto e subìto ogni genere di violenza».

Una nonna senza nipoti, è Catherine. Ci ha accolti con una reticenza che potrebbe sembrare rude se non mascherasse il pudore di chi non ama esporsi. Ha fatto la farmacista e ora, in pensione, avrebbe ben diritto a sedersi al sole, nel silenzio di questo paese verticale che si estende in altezza e fa pensare a una delle Città invisibili di Calvino: rocce sotto, pietre che lo acciottolano e sassi all’orizzonte. Paese resistente, che non si concede facilmente, come chi lo abita.

Catherine è recidiva, sono mesi che accoglie ragazzi e ragazze sperduti nella valle, arrivati da Ventimiglia in questi borghi semidisabitati seguendo le rotaie del treno. Sa bene che aiutarli è rischioso, altri come lei sono già stati sottoposti a fermo obbligatorio in caserma, alcuni sono sotto processo – anche se in teoria non sarebbero perseguibili, almeno secondo la modifica del 2012 alla legge francese sul cosiddetto “reato di solidarietà”, che consente il soccorso a persone in difficoltà anche quando non hanno i documenti in regola. «Però se ti trovano con uno straniero in auto ti arrestano, perché nella legge non è contemplata la possibilità di dare un passaggio in macchina», dice. Un insegnante è stato fermato al casello di Mentone con quattro migranti e si è preso una denuncia per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. «E’ stato assolto ma adesso passare dall’autostrada è decisamente complicato», dice Catherine. Il sottinteso è che, per l’ingenuità di uno solo, ora tutti devono trovare strade alternative e più complicate per passare il confine. Scuote piano la testa mentre taglia le cipolle a listelle sottili. Sono equilibri delicati, il clamore degli arresti e della stampa fa drizzare le antenne alle forze dell’ordine. In casa sua non sono mai entrati ma Catherine sa bene quel che è successo a Cédric Herrou, il contadino di Breil-sur-Roya che ne ha aiutati centinaia: minacce di morte, denunce per aver aiutato degli irregolari, agenti antisommossa che fanno irruzione fra oche e galline della sua fattoria; infine una sentenza del tribunale di Nizza che non lo condanna al carcere ma si limita a una multa di tremila euro. Per ora.

«Mio padre ha 84 anni e vive a Clermont-Ferrand, non volevo che si preoccupasse ma a un certo punto ho dovuto dirglielo; non mi hanno mai fermata, ma se succede? Io sono sola, non volevo che telefonasse e non trovasse nessuno. Ora scherziamo, quando chiama mi chiede se mi hanno già messa dentro». Sorride, Catherine, ma si intuisce la nota di sconcerto per un destino bizzarro che l’ha portata a stare in pena per qualcuno che non conosce, e sul cui destino non può influire.

«Come comincia. Prima è una colletta per i migranti, poi una minestra per gli accampati alla frontiera e alla fine qualcuno ti avvicina e dice “abbiamo trovato dei ragazzi per strada, ne puoi tenere due questa notte”?, e tu li prendi. I primi erano dei siriani, degli enfants gâtés, viziati e maleducati, se ne fregavano di quel che dicevo, fumavano in casa. La sera che sono andati via mi sono detta: mai più. Poi mentre rincasavo me ne sono trovata proprio qua sotto altri due: non mangiavano da due giorni. E li ho fatti entrare».

Dalla porta compaiono i ragazzi con i piatti sporchi, Catherine fa segno di lasciarli nel lavandino. «Alcuni sono stati accusati di sfruttamento solo perché facevano lavare i piatti ai rifugiati che accolgono. Visto che la legge dice che se trai profitto dall’accoglienza sei perseguibile, la polizia si attacca a qualsiasi cosa».

«Va così. Non vuoi e lo fai, perché l’alternativa è lasciarli soli. Ma non è facile, perché non parlano, non fanno niente, stanno tutto il giorno sul cellulare o al computer nel tentativo di non spezzare l’unico filo che li lega alla famiglia, agli amici lontani. Qualche mese fa ospitavo delle ragazze e ad un tratto sento un urlo terribile: una di loro era appena venuta a sapere della morte del fratello. Gridava, picchiava la testa sul muro – e ti assicuro che non è un modo di dire. Non riuscivo a parlarle perché non sapeva una parola d’inglese. Voleva partire subito, senza conoscere le strade. Stavo per darle un calmante, ma se poi era allergica? La verità è che sei solo davanti a situazioni drammatiche, a vite di cui non sai nulla. Sei senza strumenti».

Mentre parla guarda il cellulare, racconta che le è appena arrivato un messaggio da un ragazzo che ha avuto in casa qualche mese fa. Cercava di passare il confine a Calais e l’hanno preso, ora è uno dei tanti dublinés. «Era disperato. E’ partito dal suo paese minorenne, ha subìto di tutto: prigione, torture, fame; ora era in Francia e si sentiva al sicuro. E invece è stato espulso e deve ricominciare da capo». Scuote la testa, Catherine. «Dopo tutto quello che ha sofferto. Non capisco, io davvero non capisco».

Catherine ha trascorso tutta la sua vita adulta in val Roja, in questa terra di nessuno, che non è più Italia e non è ancora Francia, paesi arroccati sui monti ma già levigati dall’aria del mare, prati impervi e sentieri di contrabbandieri di sale, diventati piste per passeurs. Oggi i valichi sono presidiati dalla polizia e dicono che ci sono anche i corpi speciali. «Perché li lasciano arrivare fin qui se poi li vogliono bloccare quando cercano di scendere verso Nizza? Per fare scena e dire che sono bravi, loro, ad arrestare clandestini, che tutto è sotto controllo e l’Etat d’urgence funziona a meraviglia».

E’ stanca, Catherine. «Uno pensa alla pensione come al momento in cui potrà riposarsi e invece io lavoro più di prima», sospira. Ci sono le riunioni dell’associazione per coordinare le azioni di solidarietà e sostenere i compagni che devono subire i processi, poi bisogna raccogliere fondi, portare pasti a chi si accampa a Ventimiglia – «che tra l’altro è vietato da un’ordinanza del Comune» – e, ovviamente, provvedere ai “ragazzi”. «Ora devo andare a trovare mio padre e sai cosa? Aspetto quel momento come una vacanza».

Si muove lenta nella cucina che sembra cucita addosso a lei – se vuoi una sedia in più devi prenderla dal piano di sopra – e ora quella piccola casa si trova a dividerla con quattro uomini. «Non vedo l’ora di tornare da sola», chiosa con un mezzo sorriso.

Ci accompagna fin sulla soglia, affrontando con precauzione la scala ripida che scende verso la strada, fra due rose rampicanti che incorniciano la porta: «e poi sai cosa?», butta lì, come se avesse dimenticato un dettaglio. «E poi come sono arrivati, ripartono. E tu di loro non sai più nulla».

(uscito su Il Reportage)

Eva G.

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Federica Tourn

Si sente sempre un fermento particolare nelle città di confine, soprattutto se al di là della frontiera c’è una guerra. A Kilis, estremo margine di Turchia, nel luglio 2013 si percepiva chiaramente quel senso di sospensione gravida di non detti, di attese, di vite strappate al normale corso della quotidianità e rifugiate qui, in salvo ma con l’ansia continua della miseria e della morte che arriva come notizia, altrettanto quotidiana, dalla linea del fronte, a pochi chilometri. Città sovraccarica di storie, soprattutto di donne e bambini, profughi che stanno ai margini e appena possono tornano indietro, in Siria, attraverso le montagne, per sentieri segnati da talmente tanti passi da non avere bisogno di una guida.

A Kilis c’era anche Eva Guerriero, venuta per cercare il corpo di suo figlio, morto ammazzato in una guerra che credeva sua, al di là della frontiera, nelle file di Al Nusra, costola siriana di Al Quaeda, che qui, nel nord della Siria, fa parte dell’esercito di volontari in lotta contro Assad. Di cosa resti di quell’Esercito Siriano Libero in cui tanti hanno creduto fino a lasciarci gambe, braccia e spesso la vita, non è chiaro. Certo ora a dettare le regole qui è solo Al Nusra, in questa provincia in cui i ragazzini ti portano a braccia i resti delle bombe che gli hanno distrutto la casa, unico omaggio a disposizione per attirare i giornalisti stranieri. I comandanti conoscono l’inglese meglio di noi, hanno studiato ad Harvard, sanno bene cosa chiedere agli stranieri – dollari o, meglio, euro – in cambio di un lasciapassare o una protezione provvisoria; i soldati sono ragazzi, a malapena in grado di farsi crescere la barba d’ordinanza, e ridono dei nostri inutili giubbotti antiproiettile, buoni solo a farci sudare sotto un sole implacabile.

In quell’estate erano in tanti a Kilis: c’era il premio pulitzer Roy Gutman, da cui ho imparato a mie spese la lezione numero uno del giornalismo: “It’s better to have a low profile” – ma questa è un’altra storia. C’era anche Steven Sotloff, che sulla terrazza dell’albergo fatiscente vista Siria, ricettacolo di giornalisti e mercenari, raccontava disinvolto ai colleghi dei suoi viaggi per il mondo e soltanto pochi giorni dopo sarebbe stato rapito per diventare una delle prime vittime della violenza mediatizzata dell’Isis. E c’era un giapponese che pagava per andare ad ammazzare oltre confine: ogni mattina passava la frontiera della Turchia con il suo autista, armi nel bagagliaio dell’auto, e poi via per il safari quotidiano, dove le prede erano i siriani dispersi dalla guerra: impunità, adrenalina, risultato garantito; e a sera, anche in caso di ramadàn, trovava sempre la birra fresca nel frigorifero dell’hotel questo pendolare dell’orrore. C’erano, infine, i freelance malinconici che la notte seguivano i lampi dei bombardamenti aerei di Assad, in attesa del momento giusto per entrare, sempre inseguiti dai moniti dissuasivi di mamma Farnesina; mentre da qualche parte al di là del filo spinato, nella logica imprevedibile delle fazioni in lotta, c’era l’inviato della Stampa Domenico Quirico, sotto sequestro ormai da mesi.

E poi c’era Eva, che non riesco nemmeno a guardare mentre si aggira da sola nell’albergo all’ora di colazione; mi dice poche parole, le saltano in bocca le vocali, si accende veloce un’altra sigaretta. Chiede informazioni pratiche a tutti, l’intenzione una sola: entrare in Siria. Chi sia, lo sappiamo tutti: ha preso il nostro stesso aereo – Milano-Istanbul e poi il volo locale Istanbul-Gaziantep, infine un passaggio in auto per Kilis – sempre da sola, sempre in movimento; vuole che la responsabile dell’associazione umanitaria che va al campo di Bab-al-Salam la porti con sé, ma invano, si teme possa diventare un pericolo. Perché tutti sappiamo che è lì per quello: per cercare il corpo di suo figlio disperso vicino a Al-Qusayr, dove dicono sia stato ammazzato da un cecchino un mese prima. Le notizie sono frammentarie, il padre intervistato rilascia qualche dichiarazione – i giornali nazionali ne parlano, ci sono dibattiti, è il primo italiano morto per essere partito volontario per il jihad, la guerra santa. Eva non parla, parte per ritrovarlo, per riaverne almeno il corpo, come le madri fanno da sempre, in tutte le guerre, dall’inizio dei tempi.

Lo so, per questo non riesco nemmeno a guardarla in faccia. I suoi modi, la sua ansia, la sua fretta infastidiscono chi ha una missione da compiere, medicinali da portare ai vivi, dottori da far arrivare nei campi profughi; e immagino i tentativi dei funzionari di farla desistere dal passare la frontiera: un timbro all’uscita dalla Turchia e poi più niente, un chilometro di strada sterrata e nessuno ad accoglierti se non un soldato col kalashnikov dentro una garitta vuota; il confine siriano ormai non esiste più, lasciate ogni speranza o voi ch’entrate.

Eva Guerriero è un problema per tutti perché non ha preparazione, non ha supporti, non ha equipaggiamento, non sa la lingua, non ha conoscenze; l’unica cosa che possiede, e che pure le basta, è la sua determinazione. La sento al mio fianco e non riesco a guardarla perché la sua follia la capisco benissimo: ben altro confine ha superato, lei, un mese prima, quando ha saputo. Che vuoi che sia, allora, al Qaeda, quando il tuo bambino te l’hanno ammazzato? Quale paura ti può essere rimasta? Quale prudenza? Siamo gomito a gomito al tavolo, ma se allungassi una mano non potrei toccarla, ha fatto un salto incolmabile oltre il limite, e non posso raggiungerla. Ma quel confine io lo vedo eccome, perché so bene che io potrei essere di là, io potrei essere al suo posto.

Di tutto il dolore che incontrerò poi a cavallo della frontiera, Eva Guerriero è stato l’emblema muto; e di fronte a lei, il mio tentativo di raccontare la guerra niente più di un gioco da ragazzi in gita. Dicono che sia poi riuscita a entrare in Siria, non una ma due volte, e che la seconda volta abbia trovato qualcuno che le ha indicato il posto dove è sepolto suo figlio. Dicono che i soldati di Al Nusra le abbiano consegnato il suo diario e che l’abbiano benedetta e protetta perché madre di un martire: Gianluca Ibrahim Delnevo, 23 anni, di Genova.

(uscito su Il Reportage)