Di Federica Tourn (Jesus n. 1 Gennaio 2017)
In tanti avevano gridato al miracolo, e forse, in un’accezione mondana, lo è stato davvero. Quando una squadra di calcio come il Leicester, abituata a frequentare i bassifondi della classifica, arriva a vincere la Premier League, che altro si può dire? Ma se qualcuno ha pensato che si trattasse di un fuoco di paglia, destinato a consumarsi nelle ceneri della festa, ha ancora tempo per ricredersi: il sogno delle Foxes ora prende il largo anche in Europa, dopo la qualificazione agli ottavi di finale in Champions League. Chi scommetterebbe oggi sugli esiti della stagione?
A maggio la notizia della vittoria ha fatto il giro del mondo, gratificando l’ansia di riscatto degli eterni secondi di ogni latitudine e forse almeno per qualche giorno ha oscurato il timore della Brexit imminente; a maggior ragione in Italia, visto che l’allenatore è il romano Claudio Ranieri. Un successo tanto straordinario quanto inaspettato; talmente fuori dalle previsioni ragionevoli che, per dirne una, i bookmaker davano il ritrovamento di Elvis vivo o l’elezione di Bono Vox a papa più probabili della vittoria del Leicester in campionato.
Un trionfo che ha qualcosa di fiabesco e che si è riverberato sulla città che l’ha prima incoraggiato, festeggiato e infine incorporato come qualcosa di suo, segno distintivo di una collettività multietnica che ogni giorno calibra le forze e tiene insieme gli opposti in una convivenza pacifica e inclusiva, dove la fede è l’ingrediente decisivo. Non è un caso, allora, che dietro le quinte si muovano monaci buddisti a benedire la squadra prima del calcio d’inizio – da tre anni arrivano direttamente dalla Thailandia per volere del proprietario del Leicester, Vichai Srivaddhanaprabha, il miliardario fondatore di una catena di negozi duty free aeroportuali – e che un fantasista come Riyad Mahrez, giocatore dell’anno 2016, sia un musulmano praticante, o che lo stesso Ranieri, cattolico devoto a Rita da Cascia, volesse portare la squadra in pellegrinaggio a Roccaporena, dove si trova il santuario dedicato alla santa.
Ogni fatto clamoroso si porta dietro le sue leggende. La più fresca, in città, è che la tumulazione solenne nella cattedrale anglicana nel marzo 2015 del corpo di Riccardo III, ritrovato sotto un parcheggio tre anni prima, è coincisa con la ripresa inarrestabile del team. Sarà stata la benedizione buddista o il ritrovamento delle spoglie del re a dare la spinta giusta alle Volpi di Ranieri?
Una cosa è certa: gli abitanti di Leicester sono molto fieri anche dell’ultimo dei Plantageneti, tanto deprecato da Shakespeare e ora riabilitato dalla regina Elisabetta. Tra i cattolici c’è chi si spinge ad affermare che se Riccardo III non fosse morto lasciando campo libero ai Tudor, e al divieto del culto cattolico imposto da Enrico VIII, forse la chiesa anglicana non sarebbe mai esistita. In ogni caso alla sepoltura ha partecipato anche l’arcivescovo di Westminster, il cardinale Vincent Nichols, e per cantare i vespri in cattedrale sono arrivati cinquanta frati domenicani da tutto il paese, per una cerimonia ecumenica che non ha scontentato nessuno. Il cardinale ha poi celebrato una messa di requiem all’Holy Cross Church, priorato domenicano e una delle più grandi parrocchie del centro, dove la domenica si può incontrare anche il coach Ranieri.
«La vittoria in Premier League e il ritrovamento di Riccardo III hanno dato un po’ di carica alla città – dice padre David Rocks, priore di Holy Cross – viviamo in una delle zone più deprivate del paese, il livello di istruzione è mediamente basso e in generale soffriamo di una crisi economica cronica». La fiorente industria tessile e di calzature che aveva prosperato fino all’ultima guerra grazie alle forniture per l’esercito, con la pace comincia a spegnersi, mentre continuano ad arrivare sempre nuove ondate di migranti che trasformano la città in una terra aperta a chi chiede asilo, che si tratti dei sikh venuti dal Punjab, dei polacchi scappati dal comunismo o degli ugandesi di origine asiatica cacciati in massa dal loro paese nel ’72. «Il suo scopo col tempo è diventato l’accoglienza», conferma padre David.
Leicester, forse suo malgrado, è un esperimento riuscito, un innesto che ha allargato le radici in profondità, rinforzato il fusto e ora promette una fioritura. Non è soltanto un modo di dire: qui le religioni crescono una sull’altra, e se la stessa cattedrale è stata costruita su un tempio pagano, oggi le chiese cedono il passo alle moschee e alle madrase o si riempiono delle immagini di dei e colori dell’India, come nel caso della chiesetta congregazionalista in Oxford Street trasformata in tempio giainista. Come sarà invocare Allah o studiare gli insegnamenti di Mahavira sotto la volta tardo Ottocento di una cappella vittoriana?
Nelle strade storiche del centro, dove ha predicato anche il fondatore del metodismo John Wesley, oggi si sfiorano uomini in jellaba o con il tipico turbante sikh, donne con il burka e le borse della spesa, solo una fessura per gli occhi; i tratti somatici denunciano origini indiane, pachistane, africane e dominano sulla pelle chiara degli inglesi da generazioni e degli irlandesi, che a Leicester sono arrivati in gran numero per cercare lavoro alla fine del secondo conflitto mondiale. Una mescolanza che dà vita a un delicato equilibrio di contrasti. «Il segreto di Leicester è che non esiste una comunità più forte di un’altra, siamo un insieme di minoranze», sintetizza la pastora Alison Adams, vicedecana della cattedrale anglicana. «Da poco c’è stato anche il sorpasso della popolazione nonwhite sugli autoctoni», aggiunge la pastora. Lo confermano i numeri: secondo il censimento del 2011, su 330mila abitanti il 50.6% è white ma soltanto il 45.1% è white British, mentre gli asiatici raggiungono il 37,1% (di cui il 28.3% viene dall’India). E così, anche se i cristiani continuano ad essere la fede predominante in città con il 32.40% dei fedeli, i musulmani sono 18.63%, seguiti dagli indù (15.19%), dai sikh (4.38%) e da numerosi altri gruppi religiosi – dai buddisti (0,37%) agli ebrei (0,09%), dai giainisti ai seguaci di Sai Baba – che fanno di Leicester un sorprendente caso di antidoto alla secolarizzazione.
Una spiritualità cresciuta in un ambiente aperto, dove «le leggi sono flessibili, lasciano ampio margine di libertà e di espressione», come sottolinea l’imam della Moschea Centrale, Mohammad Shahid Raza. E in questi margini di libertà si sono installati anche i tribunali della sharia, che oggi in Gran Bretagna regolano le controversie del diritto famigliare in molte comunità musulmane. «Quando sono arrivato a Leicester nel 1978 – racconta l’imam – c’erano tremila musulmani e tre soli luoghi di culto. Oggi siamo in cinquantamila, le moschee sono 35 e un’altra è in costruzione». Integralisti? «Ci sono comunità wahabite, in cui le donne non hanno accesso alle moschee, ma vigiliamo che non emergano estremisti perché contrastare il terrorismo islamico è innanzitutto un nostro interesse – afferma Shaid Raza – per prevenirlo, a scuola e durante la preghiera del venerdì parliamo di diritti civili, di tolleranza e di come entrare in relazione con le altre fedi».
«La base della convivenza pacifica è il rispetto»: su questo sono tutti d’accordo a Leicester. Un rispetto che va tessuto con pazienza e alimentato dalla reciproca conoscenza: le feste religiose diventano quindi un’occasione per partecipare a cerimonie di altre fedi. Non solo Diwali, la festa delle luci che accomuna indù, sikh e giainisti, ma ogni ricorrenza, gioiosa o dolorosa, è un’occasione per far incontrare le persone e per smontare preconcetti e paure. E se ai cortei per le ricorrenze sacre dei sikh partecipano cittadini e politici, la cattedrale si è aperta per accogliere i pachistani dopo l’attentato di Lahore del marzo scorso, in una commemorazione interreligiosa di lutto comune. «Le diverse comunità religiose sono incoraggiate dalle istituzioni locali a condividere con le altre la propria cultura», conferma Bhai Sri Purohit Ji, del tempio indù Shree Shakti Mandir. Quando è arrivato a Leicester dal Kenya, nel 1969, «c’erano molti pregiudizi e nemmeno un luogo dove pregare», racconta. Ora i templi indù in città sono 21. Bhai viene da una famiglia di bramhani, suo padre era un sacerdote; dei suoi quattro figli, tutti nati qui, soltanto due sono praticanti. Allarga le braccia: «li educhiamo al rispetto della fede e delle nostre tradizioni ma loro vivono in questo mondo e inoltre, anche se non li incoraggiamo, i matrimoni interreligiosi sono in aumento».
Un comitato ufficiale interfedi lavora per favorire il dialogo fra le comunità da più di vent’anni e il risultato si vede. «Mi piace vivere in Inghilterra e in particolare a Leicester, è una città tranquilla in cui ho molti amici», sintetizza Amrik Singh Gill, segretario generale del Guru Nanak Gurdwara, il più antico tempio sikh cittadino, che durante la funzione della domenica accoglie anche 500 persone. Si prega, si canta e poi si mangia insieme, secondo la tradizione sikh di condivisione del cibo, offerto a chiunque si presenti, senza distinzione di credo. Al piano superiore è allestito il primo museo sikh in Europa, inaugurato dalla regina nel 2002, dove sono esposte le armi tradizionali, le immagini dei guru e dei martiri della fede.
«Leicester è un esempio riuscito di città multireligiosa – aggiunge l’imam – condividiamo molti valori fondamentali e ci aiutiamo in caso di necessità». Per esempio dopo Brexit, quando il risultato del referendum ha spiazzato tutti e ha immediatamente allarmato i nonwhite: un timore che si sarebbe rivelato tutt’altro che infondato, dato che le aggressioni a sfondo razzista e xenofobo sono aumentate del 70% negli ultimi sei mesi. «Il giorno dopo il voto tutti i leader delle comunità religiose sono scesi in strada per dire che non sarebbe cambiato niente, che la città avrebbe continuato a essere aperta agli stranieri», ricorda la pastora Adams. Le fa eco l’imam: «L’islamofobia è in crescita in tutta l’Inghilterra. C’è chi ci ha accusato di essere dei terroristi e ha minacciato di cacciarci, ma abbiamo ricevuto un enorme supporto dalla popolazione. Anche il vescovo è venuto in moschea per testimoniare la sua solidarietà». «Noi abbiamo tutti votato contro l’uscita dall’Unione europea», aggiunge con fierezza. E in effetti, Leicester è una delle città che ha avuto una maggioranza, seppur piccola, di schede remain.
Un risultato raggiunto con un lungo lavoro di dialogo, perché per formare una mentalità inclusiva ci vogliono anni. La stessa Leicester che ora fa dell’accoglienza una bandiera, soltanto sessant’anni fa scriveva sui muri no catholic, no black, no irish. Infatti questa, per i cattolici, era terra di missione. «Le relazioni ecumeniche non sono sempre state facili – testimonia padre Robert Gay, domenicano – ma sono decisamente migliorate dopo il Concilio Vaticano II. Ora con la chiesa anglicana facciamo fronte comune su molte emergenze sociali, come la cura dei carcerati o l’assistenza ai rifugiati o ai senzatetto».
A dicembre infatti è stato inaugurato un ricovero interconfessionale per uomini senza fissa dimora, il primo in Gran Bretagna a coinvolgere sette denominazioni religiose diverse. Lo scopo non è pregare insieme ma aiutare persone in difficoltà durante l’inverno, senza distinzione di fede. Nel centro prestano assistenza a turno più di duecento volontari, segno di una città sensibile alle fragilità e pronta a rispondere alle emergenze.
«Alcuni problemi aperti, come l’ordinazione delle donne o l’apertura alle unioni omosessuali, rendono ancora difficile l’unità fra cristiani. In ogni caso, l’immigrazione ha aiutato l’integrazione – continua ancora padre Robert – perché siamo stati costretti a trovare strumenti per tenere insieme persone che provenivano da paesi tanto diversi». Il cattolicesimo è stato uno di questi: «A messa vengono irlandesi, nigeriani, indiani che non avrebbero occasione di incontrarsi altrove, la comunità è un luogo dove socializzare e al contempo celebrare culture differenti: una bellissima immagine della realtà della Chiesa cattolica, intesa davvero nel senso di universale».
E fra i tanti sistemi per stare insieme, che cosa poteva inventarsi Leicester se non una squadra di calcio? Un team composto da preti, imam, pastori e sacerdoti indù, che si confronta amichevolmente sul terreno di gioco, come racconta divertito Shaid Raza. E chi vince? «Gli anglicani sono sempre i più forti», ride l’imam. Per ora, almeno.