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«Piazza Fontana, la prima strage»

12 dicembre 1969, la strage di Piazza Fontana a Milano viene considerato il primo tragico episodio di quella che passerà alla storia come la stagione della “Strategia della tensione”.

In occasione del 54esimo anniversario da quelle bombe che causarono 17 morti (la diciottesima vittima sarà tre giorni dopo l’anarchico Giuseppe Pinelli, “precipitato” da una finestra della Questura di Milano) e 88 feriti, il gruppo di lavoro di “Io so – Percorso di formazione sulla strategia della tensione” pubblica un podcast di approfondimento: « Piazza Fontana, la prima strage».

Il podcast è disponibile su Spotify .

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Il rapporto sugli abusi del gruppo cattolico dei Focolari lascia molte domande senza risposta

Di Federica Tourn e Gordon Urquhart

National Catholic Reporter, 17 luglio 2023

Il 31 marzo scorso, il movimento dei Focolari, la piu grande organizzazione di origine laica nella chiesa cattolica, ha pubblicato il primo Resoconto – interno, non indipendente – sui casi di abusi sessuali su minori e adulti vulnerabili avvenuti al suo interno. Nel report, in particolare, si dà conto delle segnalazioni delle violenze sui minori pervenute alla Commissione interna del movimento per il Benessere e la Tutela della persona (Co.Be.Tu) dal 2014 al 2022. I risultati indicano che dal 1969 al 2012 66 membri del movimento, in tutto il mondo, sono stati accusati di aver abusato di 42 minori (29 fra i 14 e i 18 anni e 13 con meno di 14 anni) e di 17 adulti vulnerabili.

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Abusi, mosaici e milioni, ecco la società segreta di Rupnik

Di Federica Tourn e Marija Zidar, (Lubiana)

Domani, 14 aprile 2023

Si chiama Rossoroblu la società fondata nel 2007 da Marko Rupnik «per la creazione e posa in opera, in laboratorio e sul luogo, di mosaici, vetrate, affreschi, murales, sculture, pitture in tutte le varie tecniche ed arti». La srl, con sede in via Paolina 25, dove si trova il Centro Aletti, appartiene per il 90 per cento a Rupnik e per il 10 a Manuela Viezzoli, una ex sorella della comunità Loyola che ora fa parte del “cerchio magico” delle sue fedelissime, le laiche consacrate della Comunità della divino-umanità. In almeno due casi abbiamo la prova che è stata questa società a trattare le commissioni dei mosaici: in occasione dell’imponente lavoro al Santuario di padre Pio di Pietrelcina  a San Giovanni Rotondo e per i lavori di decorazione nella chiesa del cimitero di Lubiana. Il famoso artista, il gesuita accusato di abusi nei confronti di diverse suore, non poteva scegliere un nome più evocativo per la srl che gestisce le commissioni e i pagamenti dei suoi mosaici. Rosso, oro e blu sono i suoi colori: il rosso a indicare la divinità, il blu l’umano e il giallo la santità secondo la tradizione cristiana del primo millennio, come ha più volte spiegato lo stesso Rupnik. Sono il suo marchio di fabbrica, come i grandi occhi neri delle figure sacre, ritratte con le pupille dilatate a occupare tutta l’orbita.

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Il premio Mimmo Cándito a Federica Tourn

16 gennaio 2022

Lunedì sera 16 gennaio sera presso il Circolo dei Lettori di Torino si è tenuta la premiazione della Seconda edizione del Premio Mimmo Cándito.

Il Premio è destinato a quel giornalismo d’inchiesta e di analisi che si muove nel campo della politica e della società internazionale. L’idea di dare vita al concorso è nata nel 2018 a nove mesi dalla scomparsa del grande reporter di guerra, per molti anni inviato de “La Stampa” in qualsiasi scenario bellico nel mondo. Continua a leggere “Il premio Mimmo Cándito a Federica Tourn”

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I baci nel nome dell’eucarestia e il sesso a tre per imitare la Trinità, parla la suora vittima di Rupnik

Di Federica Tourn

Domani, 18 dicembre 2022

Tredicesima puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.

«La prima volta mi ha baciato sulla bocca dicendomi che così baciava l’altare dove celebrava l’eucaristia, perché con me poteva vivere il sesso come espressione dell’amore di Dio». Questo è l’inizio della particolareggiata testimonianza della violenza sessuale, psicologica e spirituale che Anna (nome di fantasia), una ex religiosa italiana della Comunità Loyola, ha subito per nove anni da parte del gesuita Marko Rupnik, non soltanto in Slovenia ma anche in Italia. Rupnik, teologo e artista noto in tutto il mondo, è oggi al centro di uno scandalo per l’accusa di abusi nei confronti di alcune suore, come abbiamo raccontato nei giorni scorsi su Domani. Anna, arrivata quasi al suicidio a causa delle sofferenze causate dal delirio di onnipotenza e dall’ossessione sessuale del gesuita, ha denunciato più volte il suo abusatore nel corso degli anni ma la Chiesa ha sempre coperto tutto. Continua a leggere “I baci nel nome dell’eucarestia e il sesso a tre per imitare la Trinità, parla la suora vittima di Rupnik”

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Pedofilia nella Chiesa, il caso Spotlight continua a Roma vent’anni dopo

Di Federica Tourn

Domani, 11 dicembre 2022

Dodicesima puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.

È una limpida mattina romana di metà febbraio quando monsignor John Anthony Abruzzese, originario di Boston e canonico della Basilica papale di Santa Maria Maggiore all’Esquilino, viene convocato nell’ufficio del Commissario straordinario della Basilica, monsignor Rolandas Makrickas. Ad attenderlo trova l’arciprete della Basilica, il cardinale Stanisław Ryłko, e il suo vicario, l’arcivescovo Piero Marini, che gli consegnano una lettera da parte del Sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato della Santa Sede Edgar Peña Parra. Le notizie non sono buone: Abruzzese è appena stato licenziato sui due piedi e deve tornarsene a casa, in Massachusetts. Il motivo non viene esplicitato, ma la lettera lascia intendere che la causa sia da ricercare nel fatto che Abruzzese, all’interno della basilica vaticana, divide l’alloggio con un ragazzo appena maggiorenne. Questo ragazzo, chiamiamolo Roberto, non è però un ventenne qualunque ma ha alle spalle una storia agghiacciante di pedofilia: è stato infatti abusato per nove anni da un prete e soltanto da poco si è deciso a denunciare. Continua a leggere “Pedofilia nella Chiesa, il caso Spotlight continua a Roma vent’anni dopo”

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L’8 per mille ai preti pedofili, i soldi dei fedeli usati per aiutare il sacerdote accusato di molestie

Di Federica Tourn

Domani, 14 novembre 2022

Undicesima puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.

I vescovi italiani usano i fondi statali dell’8 per mille anche per tutelare i sacerdoti accusati di pedofilia, come se le denunce delle vittime e i processi che ne conseguono fossero una persecuzione contro la Chiesa cattolica. E questi pedofili protetti sono numerosi, più di quelli rilevati dalla giustizia dello stato. È l’imbarazzante realtà che sta emergendo dal processo per violenza sessuale su minori (articoli 81 e 609 bis del codice penale) a carico di don Giuseppe Rugolo, in corso al tribunale di Enna. Continua a leggere “L’8 per mille ai preti pedofili, i soldi dei fedeli usati per aiutare il sacerdote accusato di molestie”

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La suora che ha denunciato il sacerdote che la stuprava

Di Federica Tourn

Domani, 19 settembre 2022

Ottava puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.

«Sono stata violentata per la prima volta a 24 anni da un sacerdote di quasi vent’anni più vecchio di me. Non soltanto era il mio superiore ma era anche il responsabile della congregazione. Non avevo mai sentito parlare di preti che si approfittano delle suore: per me, semplice novizia, fu uno choc».

Quando nel 2003 entra nella Famiglia Spirituale l’Opera, una comunità di vita consacrata fondata dalla belga Julia Verhaeghe e riconosciuta da Giovanni Paolo II nel 2001, Doris Wagner è una ragazza tedesca di 19 anni, piena di entusiasmo all’idea di dedicare la propria vita a Dio. Al Collegium Paulinum di Roma, sede della congregazione, sacerdoti e suore vivono insieme sotto lo stesso tetto e, anche se hanno mansioni diverse, si incontrano per la messa o durante i pasti. La realtà della vita comunitaria si rivela subito difficile: l’Opera le chiede di rinunciare alla famiglia, agli amici, le proibisce anche la lettura «per farla crescere in umiltà». Doris non viene messa al corrente di nulla, non sa nemmeno quando prenderà i voti perpetui. «Ci trasferivano da un paese all’altro senza preavviso e ci spostavano addirittura di stanza senza una spiegazione», conferma Wagner. Stringere amicizie è impossibile anche fra consorelle: «spinta dalla devozione, ci rassegnavamo a vivere in solitudine – spiega  – la nostra vita era completamente nelle mani della comunità». Continua a leggere “La suora che ha denunciato il sacerdote che la stuprava”

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È nei seminari che la chiesa deve fare i conti con il suo lato oscuro

Di Federica Tourn

Domani, 7 ottobre 2022

Sesta puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.

Un ragazzino di tredici anni scappa dalla finestra del Seminario vescovile di Savona, dove era entrato tre anni prima pieno di entusiasmo all’idea di diventare sacerdote. Siamo nel 1968, il grande istituto dove studiano i candidati al presbiterato accoglie ragazzi che vanno dalla prima media alla specializzazione in filosofia e teologia; il rettore è don Andrea Giusto, un prete gioviale e apprezzato dagli studenti. Eppure, qualcosa non va. Tornato a casa, Alessandro Nicolick – questo il nome del bambino – è taciturno e nervoso ma non vuole dare spiegazioni. Una volta adolescente comincia a far uso di eroina, diventa tossicodipendente e finisce in carcere, dove si ammala di Aids. «In ospedale, poco prima di morire, mi ha raccontato di essere stato abusato quando era in Seminario da un prefetto di camera, un seminarista più anziano che assisteva i piccoli, Pietro Pinetto», denuncia il fratello Roberto.

Don Pinetto, morto l’anno scorso di Covid, nel 1972 era stato nominato vice rettore del Seminario vescovile e nel 1981 ne era diventato anche direttore spirituale. Nel 2013, quando era parroco della chiesa di San Michele a Celle Ligure (Savona), viene però denunciato da un ex altro seminarista, che dichiara di essere stato abusato da lui negli anni ’70, ma il procedimento è archiviato perché il fatto è ormai prescritto. Il sacerdote, però, querela per diffamazione e calunnia la presunta vittima, due giornalisti locali e Francesco  Zanardi, presidente della Rete l’Abuso.

A quel punto, il colpo di scena: viene riaperta l’indagine e spuntano altre testimonianze, «comprese le segnalazioni fatte all’allora vescovo di Savona Franco Sibilla, che non intervenne, e che aprono il vaso di Pandora degli abusi sui minori nella chiesa savonese, più preoccupata di proteggere i responsabili che di evitare nuove vittime», commenta oggi Zanardi. La gip Fiorenza Giorgi, infatti, nelle motivazioni del decreto di archiviazione del procedimento per calunnia a don Pinetto pubblicate dal Secolo XIX, evidenzia che le indagini hanno fatto emergere elementi di prova che «confermano gli abusi» nel Seminario e rileva che «la curia si è preoccupata di salvare le apparenze invece di pensare a quei ragazzi che, tra l’altro, rappresentavano il futuro della chiesa stessa». Continua a leggere “È nei seminari che la chiesa deve fare i conti con il suo lato oscuro”

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Il fuoco pedofilo sotto la cenere dei focolari di Chiara Lubich

Di Federica Tourn

Domani, 25 luglio 2022

Quinta puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.

È il 3 gennaio 2021 e la Rai programma in prima serata la fiction L’amore vince tutto sulla figura di Chiara Lubich, la maestra di Trento che sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale decide di consacrarsi all’amore per Dio fondando una comunità ecclesiale di laici cattolici, il movimento dei Focolari. Nessuna ombra, neanche una nota dissonante. Eppure, negli stessi giorni, la società Gcps Consulting, incaricata dai vertici del movimento, sta cominciando a investigare sulle denunce di abuso sessuale a carico di Jean-Michel Merlin, un membro con ruoli apicali in Francia e che, con 37 vittime accertate, verrà definito un «abusatore seriale di minori» che ha goduto della copertura del movimento.

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Enna, storia del prete pedofilo tenuto coperto da due vescovi

Di Federica Tourn

Domani, 3 luglio 2022

Quarta puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.

A Enna è già tutto pronto per la cerimonia solenne di insediamento nella chiesa di San Cataldo, ma qualcosa manda a monte la festa per il nuovo parroco, don Giuseppe Rugolo: la presa di possesso avviene in sordina per decisione del vescovo e don Giuseppe per il dispiacere finisce addirittura in ospedale. Siamo a novembre 2018, e quello che sembra soltanto un intoppo nella brillante carriera di un prete molto popolare, leader indiscusso di un gruppo giovanile che conta più di duecento ragazzi, è invece il preludio di uno scandalo che culminerà più di due anni dopo con l’accusa di violenza sessuale su tre minori, secondo gli articoli 81 e 609 del codice penale. A denunciare è un giovane, Antonio Messina, all’epoca dei primi abusi appena sedicenne; durante l’inchiesta vengono individuati altri due minorenni vittime del prete. La gip Luisa Maria Bruno al momento dell’arresto dispone i domiciliari per il rischio della reiterazione del reato e la tendenza dell’indagato «a cedere alle pulsioni sessuali in maniera incondizionata».

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Il figlio è mio e lo istruisco io (lontano dalle scuole e a destra)

Di Federica Tourn

FQ Millennium, aprile 2022

Immagina di tornare bambino e di vivere in un mondo senza lunedì. Un mondo dove non suona la sveglia né la campanella, dove ti alzi quando vuoi e non esistono interrogazioni, compiti o note sul registro né banchi e tantomeno insegnanti in cattedra; un mondo dove giochi quanto vuoi, impari quello che ti piace e a settembre, quando tutti gli altri ritornano in classe, tu invece fai una grande festa di “Non rientro a scuola”. No, non è il paese dei balocchi di Pinocchio ma la realtà di ogni giorno per tanti bambini e ragazzi che, invece di andare a scuola, studiano a casa. 

Oltreoceano l’homeschooling è un’opzione considerata ormai quasi mainstream: negli Stati Uniti nel 2020-21 si sono registrati 3,7 milioni di studenti in istruzione parentale, 1,2 milioni in più rispetto alla primavera del 2019 (dati del National Home Education Research Institute) ed è in forte crescita anche in paesi come l’Australia, il Giappone o la Gran Bretagna. In Europa, disertare le aule è ancora vietato in alcuni paesi, come la Germania, la Svezia e (di recente) la Francia, ma da noi sta prendendo sempre più piede. In Italia negli ultimi due anni il numero è addirittura triplicato: secondo i dati del ministero dell’Istruzione, si è passati infatti dai 5.126 ragazzi che studiano fra le mura domestiche del 2018-2019 ai 15.361 del 2020-2021. Un balzo dovuto alla pandemia, che ha portato molte famiglie a ritirare i figli da scuola per paura del contagio e per evitare i disagi del distanziamento e della mascherina, ma che una convinta minoranza portava avanti già da tempo. I motivi possono essere diversi, ma alla base di questa scelta si trova sempre il desiderio di impartire un’educazione conforme ai princìpi della famiglia e una generale sfiducia nell’istituzione scolastica, considerata ottusa e repressiva: l’istruzione domestica, al contrario, permetterebbe ai bambini di crescere senza condizionamenti, liberi di assecondare la propria creatività. 

Nel nostro paese, non esiste formalmente l’obbligo ad andare a scuola: ad essere obbligatoria è l’istruzione, come sottolinea l’articolo 30 della Costituzione, e sono i genitori che decidono se demandare il compito a un’istituzione pubblica o privata o se occuparsene in prima persona. In questo caso, secondo l’art. 111 del Testo Unico in materia di istruzione per le scuole di ogni ordine e grado del 1994, devono soltanto dimostrare di averne la capacità tecnica ed economica e comunicarlo alle autorità competenti. Basta insomma notificare la decisione al dirigente scolastico del territorio di residenza e fornire la documentazione del programma svolto a casa alla scuola di competenza, che “vigila” sull’effettiva preparazione del minore. 

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Covid: le scelte criminali nel Brasile delle disuguaglianze sociali

Di Federica Tourn

Riforma, 16 giugno 2021

«È un genocidio», gridano esasperati i brasiliani, che nei giorni scorsi si sono riversati a migliaia nelle strade della capitale e delle principali città del paese sudamericano per chiedere più vaccini e protestare contro la politica “attendista” del presidente Jair Bolsonaro, che dall’inizio della pandemia ha portato avanti una serie di prese di posizione atte a sminuire la portata della crisi in corso, ignorando le richieste di aiuto della popolazione. 

Nessuna indicazione chiara e nessun piano condiviso sono infatti arrivati dal Ministero della Salute, mentre tempo e risorse sono stati sprecati nel difendere farmaci inefficaci contro la malattia. Per Bolsonaro, prima si trattava di una “febbricola”, poi di un virus che era inutile arginare con i lockdown, le mascherine e il distanziamento sociale, visto che si poteva agevolmente stroncare con la clorochina, un antimalarico, o con un vermifugo, l’ivermectina, un medicinale da banco facilmente reperibile in farmacia. 

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Caporalato, il primo processo ai piedi del Monviso

Di Federica Tourn

Foto di Federico Tisa

Pubblicato su La Via Libera

Migranti che fanno il doppio lavoro, di giorno nei campi e di notte nei capannoni, senza rispettare le ore di riposo obbligatorie, con un “caporale nero” che li gestisce per conto di aziende che evadono il fisco e sottopagano i lavoratori. Uno scacchiere in cui ognuno ha il suo posto e si muove con regole ben definite, quello che sta emergendo dal processo istruito davanti alla Corte di Assise di Cuneo, in cui Moumouni Tassembedo, detto Momo, originario del Burkina Faso, e due famiglie di imprenditori del Saluzzese, i Depetris di Barge e i Gastaldi di Lagnasco, sono accusati di sfruttamento della manodopera agricola. Secondo gli inquirenti, avrebbero orchestrato un sistema per reclutare i braccianti di origine africana, lucrando sulla loro condizione di fragilità economica e sociale. Uno scenario ricostruito con dovizia di particolari dall’indagine del nucleo dei carabinieri dell’Ispettorato del Lavoro di Cuneo e che parla espressamente di caporalato secondo la legge 199 del 2016.

È la prima volta per il distretto della frutta ai piedi del Monviso, un comparto produttivo che conta ottomila aziende e si regge sull’apporto dei migranti subsahariani che ogni primavera arrivano dal Sud Italia per la raccolta. Secondo la Coldiretti, su una media di 13mila stagionali, 11mila sono stranieri; il 2020 è stato però un anno eccezionale per le restrizioni causate dalla pandemia, che ha abbassato del 65% il numero dei lavoratori provenienti dai paesi extraeuropei (dati Istat). Tra quelli intercettati dalla Caritas, all’Infopoint di “Saluzzo Migrante” la scorsa stagione sono state registrate 662 persone (rispetto alle 904 dell’anno precedente), provenienti da 25 paesi e in particolare da Mali (35%), Senegal (17%), Gambia (11%) e Costa d’Avorio (8%). Continua a leggere “Caporalato, il primo processo ai piedi del Monviso”

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Caporalato al Nord. La zona grigia

Di Federica Tourn

Foto di Federico Tisa

Jesus, marzo 2021

È da poco passata la mezzanotte e tre ragazzi in bici filano silenziosi sul bordo delle strade buie. L’aria è fredda da queste parti, penetra nei vestiti e arriva fino alle ossa, soprattutto se sei stanco perché il lavoro non finisce mai. Si fermano davanti alla stazione, dove li attende un furgone col motore acceso e altre persone a bordo. Salgono, ripartono attraverso la campagna per un’altra ventina di chilometri. Di giorno raccolgono frutta, di notte lavorano in una ditta di pollame; la mattina presto, lo stesso furgone li riporta indietro, per un’altra giornata nei campi.

A organizzare contatti e trasporto è un “caporale nero”: è lui, infatti, che fa incontrare domanda e offerta di lavoro, anello di congiunzione fra i braccianti africani e le aziende agricole della zona. Moumouni Tassembedo, detto Momo, oggi è chiamato a rispondere di sfruttamento di manodopera agricola insieme a due famiglie di imprenditori, Depetris e Gastaldi, nel primo processo per caporalato del nord Italia, ufficialmente aperto lo scorso 24 settembre davanti alla Corte d’Assise di Cuneo. Continua a leggere “Caporalato al Nord. La zona grigia”

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Jovan Divjak, il generale dei bambini

Dalla fine della guerra dell’ex Jugoslavia si prende cura di migliaia di orfani attraverso l’istruzione: intervista esclusiva

Di Federica Tourn, Eastwest

Il generale Jovan Divjak, oggi 82 anni, era militare di carriera nell’esercito di Belgrado quando nel ’92 scoppiò il conflitto in Bosnia, ma rifiutò di assecondare le mire espansionistiche di Milošević ed entrò invece a far parte dell’Armija, l’Armata della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina, una forza multinazionale a difesa del paese che si era appena costituito come stato indipendente. Lui, serbo, rimase a Sarajevo come comandante della difesa territoriale della capitale assediata proprio dai serbi di Ratko Mladić, lo stesso che l’11 luglio del ’95 si rese responsabile del genocidio dei musulmani di Srebrenica. Spirito libero, il generale Divjak non ha mai smesso di difendere, con il suo impegno umanitario e la sua testimonianza, una società multiculturale che il mondo non aveva voluto riconoscere né sostenere, annegandola in una narrazione di impossibile coesistenza fra popoli e religioni diverse. Un odio etnico che non esisteva ma fu creato ad arte con una propaganda nazionalista funzionale al potere.

Il paese è ancora spaccato nelle due entità decise a Dayton nel ’95, la Republica Sprska e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina. La divisione fra le tre etnie – serbi, croati e bosgnacchi, i musulmani bosniaci – è sempre molto forte?

La prima cosa che ci separa è l’educazione: Marx sosteneva che la religione è l’oppio dei popoli ma io oggi insisto nel dire che l’educazione è l’oppio dei bambini. Agli studenti della Republika Sprska non dicono che il conflitto è iniziato con l’attacco deliberato dei serbi ma raccontano che si è trattato di guerra civile e che a Srebrenica non c’è stato nessun genocidio; gli studenti della Federazione imparano invece che la Bosnia ha subito l’aggressione serba e sanno tutto del genocidio ma non dei crimini commessi dalla polizia e dall’esercito della Federazione contro serbi e croati. Le scuole in diversi cantoni della Federazione sono divise, hanno programmi totalmente diversi e i ragazzi non si incontrano nemmeno. Il problema in ogni caso inizia in famiglia: è a casa infatti che i bambini imparano a lavarsi le mani o a salutare, imparano la differenza fra il bene e il male e anche che i nemici sono i cetnici da una parte e gli ustascia e i mujaheddin dall’altra. La scuola in questo senso arriva tardi, quando il danno è già fatto.

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Suore abusate, la chiesa è sorda al #MeToo

Di Federica Tourn

Pubblicato su FQ Millennium, febbraio 2021

«Ero una giovane suora, lui era il responsabile provinciale della mia congregazione. Una sera ha insistito per darmi un passaggio: appena un po’ fuori dal centro abitato ha allungato le mani; mi sono buttata fuori dall’auto e ho visto che si masturbava». Nadia (nome di fantasia) è stata suora per più di trent’anni in Italia, salvo una breve parentesi in una missione africana. Aveva raggiunto un ruolo di rilievo in un importante ente religioso ma, a dispetto di una forte vocazione, ha deciso di lasciare l’abito a causa delle sofferenze patite. Con questa intervista, per la prima volta esce dal silenzio: la sua è una storia di fatica e di sfruttamento, di abusi e di una strenua resistenza a un ambiente corrotto. «Il padre provinciale ha provato moltissime volte a violentarmi – continua – in tante venivamo molestate, bastava rimanere da sola in una stanza e te lo trovavi addosso. Ho detto tutto al suo superiore ma non è servito a niente». 

Non è stato l’unico: «Nella mia vita avrei dovuto denunciarne almeno quattro – specifica Nadia – Una volta, in missione in Africa, un prete di un’altra congregazione si infilò in camera mia durante la notte e mi violentò. Oggi è parroco in Belgio». In Italia, mentre frequenta un’università religiosa grazie a una borsa di studio, Nadia viene molestata dal rettore: «Mi ha chiamata nel suo ufficio con la scusa di un documento da fotocopiare – ricorda –  e, dopo aver chiuso la porta alle mie spalle, mi ha preso la mano destra e l’ha appoggiata sui genitali per farmi sentire l’erezione». Fa una pausa, si sente il disgusto, tenace attraverso gli anni. «Mi viene una rabbia perché questo prete era cappellano e confessore spirituale di un convento: se ha osato provarci con me, che ero una conosciuta e italiana, cosa avrà fatto con le giovani provenienti da altri paesi, sole e vulnerabili?».

«Che cosa potevo fare? – prosegue Nadia – Era amico intimo di Buttiglione, del cardinale Angelini e di Andreotti: chi mi avrebbe dato retta?». Anni dopo, però, quando ormai non è più suora, Nadia incontra un altro prete, confratello del rettore, e gli racconta che ha studiato alla loro università ma che si è trovata male a causa di quel sacerdote. «“Lo sappiamo” mi ha risposto lui, senza esitazioni – ricorda oggi Nadia – Aveva capito immediatamente a che cosa mi riferivo. Sapevano tutto e non lo hanno fermato». 

La storia di Nadia è tutt’altro che un caso isolato e parla di una realtà molto diffusa, che tuttavia fatica ad emergere. Se il dramma della pedofilia nella chiesa è ormai davanti agli occhi di tutti, con tanto di mea culpa ecclesiastici e (alcuni) processi eccellenti, gli abusi sulle suore da parte dei preti restano un buco nero da cui è quasi impossibile far emergere verità, dati e testimonianze, figuriamoci intravedere un percorso di giustizia. Soprattutto in Italia, dove su tutto incombe lo Stato Pontificio. Infatti, se in Francia il tema degli abusi sulle suore è stato trattato dal documentario choc di Eric Quintin e Marie-Pierre Raimbault Religieuses abusées, l’autre scandale de l’Église, trasmesso da Arte, nel nostro paese i tentativi di fare breccia nell’omertà del clero vengono ripagati duramente. Lo sa bene Lucetta Scaraffia, ex direttrice del mensile Donne Chiesa Mondo, supplemento dell’Osservatore Romano: proprio un suo articolo, nel febbraio 2019, ha scatenato la reazione delle gerarchie, portandola alle dimissioni. «Mi fu fatto capire che non dovevamo parlare di abusi sul giornale – racconta oggi – Quando il direttore dell’Osservatore cominciò a voler controllare le bozze, realizzai che la mia libertà d’azione era finita». Prima di andarsene, però, decide di sferrare il colpo e pubblica l’articolo sulle religiose abusate: «Abbiamo ricevuto tantissimi messaggi da parte delle suore, ci lasciavano fiori e bigliettini in redazione per ringraziarci di aver parlato delle loro sofferenze, una cosa commovente», ricorda. Il suo articolo, linkato ovunque al momento della pubblicazione, oggi è irreperibile sul web, quasi non fosse mai stato scritto.

Le donne consacrate non hanno potere decisionale e la loro parola non conta nulla in un ambiente già segnato da una profonda disuguaglianza di genere: «Le suore vivono una grave mancanza di considerazione nella chiesa: il loro lavoro è gratuito o poco pagato e spesso vengono trattate come serve dei preti», conferma Scaraffia. Inoltre la rigida gerarchia interna alle congregazioni mortifica in molti casi le vocazioni personali e costringe le suore a chiedere il permesso alla madre superiora per ogni minima cosa, dai soldi per la biancheria alla possibilità di studiare. Non sono rare le punizioni, soprattutto per le novizie: «Una ex suora ci ha raccontato di essere stata tenuta in ginocchio per ore sulle pietre per non aver eseguito un’incombenza e, in generale, le vessazioni psicologiche sono molto diffuse – racconta la psicologa Lorita Tinelli, del Centro studi sugli abusi psicologici di Bari – Sappiamo di alcuni casi in cui ancora viene utilizzato il cilicio per i pensieri peccaminosi. Le ragazze che prendono il velo devono rinunciare completamente al mondo esterno e levigare il carattere fino ad aderire completamente alle regole della comunità». 

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Così il Covid ha creato il limbo delle malate di tumore al seno

Durante il lockdown molte prestazioni sanitarie, considerate non indispensabili, si sono fermate. Fra queste gli esami per la diagnosi precoce del cancro alla mammella. La prima causa di morte oncologica fra le donne 

Di Federica Tourn

Pubblicato sul giornale Domani

Alessandra ha 38 anni quando una mattina, guardandosi allo specchio, vede un’ombra sotto il braccio destro. Prova a toccare ma non sente nulla. La sera, a letto, ritenta ed eccola: una pallina dura vicino alle costole, grande come una nocciolina. È cominciata così, come per migliaia di altre donne: un nodulo anomalo, il batticuore, la corsa dal medico e l’improvvisa scoperta di un cancro al seno.

È il marzo del 2019, dopo due mesi Alessandra viene ricoverata per l’intervento: la diagnosi è severa e deve sottoporsi anche alla mastectomia. Tornata a casa, affronta le cure ormonali e la chemioterapia: è determinata, di tumore ne ha già sconfitto uno a vent’anni, non è una persona che si lascia abbattere facilmente.

Ma ecco che capita l’imprevedibile: una pandemia che travolge il paese e chiude frontiere, scuole, imprese e blocca anche molti ospedali, costretti a sigillare interi reparti e a destinare uomini e macchinari all’emergenza sanitaria. In Italia non si parla d’altro che del pericolo di ammalarsi di Covid e tutto il resto sembra congelato.

Leggi l’intero articolo su Domani a questo link.

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Zona disagio. Fortezza Europa criminalizza chi salva vite

Gli ultimi mesi hanno visto l’intensificarsi di strategie repressive messe in atto a livello politico e giudiziario allo scopo di ostacolare, per non dire tentare di annullare in toto, i soccorsi metti in atto dalla società civile nei confronti delle persone migranti. In mare come via terra il lockdown ha reso più complicato il lavoro anche dei mezzi di comunicazione, che hanno faticato a raccontare cosa accedeva e accade tuttora ai nostri confini; un po’ per difficoltà oggettive un po’ perché l’agenda dei media è stata ed è ancora dominata dalla questione pandemia. Telecamere spente e allora via agli esperimenti: respingimenti alla frontiera slovena, incriminazioni varie alle navi nel Mediterraneo.

In principio furono i blocchi amministrativi e le accuse di svolgere il ruolo di “taxi del mare”.

5 maggio 2020: la prima nave fermata è la Alan Kurdi, battente della ong tedesca Sea-Eye, ancora bloccata;
6 maggio 2020: il giorno dopo, è fermata anche la spagnola Aita Mari (dell’Ong Salvamento Marítimo Humanitario);
8 luglio 2020: è invece il turno della Sea Watch 3 nel porto di Porto Empedocle; lunga ispezione a bordo e contestazione di una serie di mancanze e sblocco ottenuto a fine febbraio 2021.
22 luglio 2020: la Ocean Viking di Sos Mediterranée è stata bloccata a Porto Empedocle in seguito a una lunga ispezione. Quest’ultima è stata “liberata” il 21 dicembre scorso dopo cinque mesi esatti;

21 settembre: la nave Sea Watch 4 viene bloccata nel porto di Palermo. E’ stata dissequestrata il 2 marzo 2021;
25 settembre 2020: è il turno della nave Mare Jonio dell’organizzazione non governativa (Ong) Mediterranea, bloccata nel porto di Pozzallo da allora.

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Zona Disagio. Mauro Rostagno, è stata la mafia

La Cassazione conferma la sentenza di appello: condannato il mandante e assolto l’esecutore materiale

Trentadue anni fa, il 26 settembre 1988, il sociologo e giornalista Mauro Rostagno veniva ucciso in un agguato mafioso alle porte di Trapani. Aveva 46 anni e aveva succhiato energia da ogni singolo giorno vissuto: giovanissimo emigrato all’estero, quindi studente di Sociologia a Trento attorno al 1968, assistente alla cattedra di sociologia all’università di Palermo, responsabile regionale siciliano di Lotta Continua (clamorosa l’occupazione della cattedrale con i senza tetto della città), fondatore a Milano del centro sociale Macondo, a cui seguiranno gli anni in India nell’ashram di Osho a Pune e infine Trapani con Saman, prima centro di meditazione, poi comunità terapeutica per tossicodipendenti, cui negli ultimi due anni aveva affiancato il lavoro da giornalista alla rete televisiva locale Rtc. Saranno proprio i suoi servizi, le inchieste e la comprensione della penetrazione di Cosa Nostra a Trapani a portare alla reazione dei capi mafia. 

Ora trentadue anni dopo, c’è finalmente anche una sentenza definitiva a certificarlo, pronunciata nel pomeriggio di ieri 27 novembre. Confermata la sentenza di appello, ergastolo al boss trapanese di Cosa Nostra Vincenzo Virga, assolto il presunto esecutore materiale, Vito Mazzara, nonostante le numerose prove a carico.

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Zona Disagio. Mônica e Marielle

Il 14 marzo 2018 Marielle Franco viene uccisa con una scarica di colpi di pistola a Rio de Janeiro. Sociologa e attivista per i diritti Lgbt, ha un sorriso sfacciato, forza, competenza, determinazione; è «negra, favelada, feminista, LGBT, anticapitalista. Uma gigante»come la ricorda la sua compagna, Mônica Tereza Benício. Ha soltanto 39 anni quando la ammazzano. È consigliera comunale a Rio e le sue denunce contro la violenza della polizia danno fastidio: relatrice per una commissione speciale che monitora l’intervento federale a Rio e la militarizzazione della sicurezza pubblica, non ha paura di parlare chiaro. Dopo, pare impossibile averla persa: il colpo è durissimo, la rabbia per il suo assassinio travolgente. Eppure il dolore non ferma chi la amava, sono in tanti e tante a chiedere che venga fatta giustizia, prima fra tutte sua moglie Mônica. 

Mônica che non si arrende, perché l’amore non è disgiunto dalla lotta, e oggi, due anni e mezzo dopo, ha vinto le elezioni municipali con il Psol (Partito Socialismo e Libertà) e con la forza di 23mila voti, la terza donna più votata a Rio, riprende il posto che hanno tolto a Marielle insieme alla vita.

«Candidarmi non è stata una decisione facile», dice, e si può bene immaginare. «È un impegno per la sua memoria, per tutto quello in cui abbiamo creduto, per i sogni che abbiamo condiviso». Un impegno che le ha fatto convogliare o luto na luta, il lutto nella lotta, «Per trasformare il mondo che ce l’ha portata via».

La luta principale oggi è contro Bolsonaro e la sua politica violenta, razzista e machista, per un Brasile che merita ben altro. Ma il successo di Mônica a Rio ci dice anche un’altra cosa: che ucciderci non basta a farci tacere, perché altre dopo di noi trasformeranno il dolore in rabbia e la rabbia in politica per le donne, per la comunità Lgbt, per gli sfruttati e per gli esclusi, ovunque.

Un grandioso segno di resistenza e speranza per questo 25 novembre, che non sia solo condanna di femminicidi e legittima richiesta di giustizia, ma anche testimonianza del cammino che le donne continuano a fare, ogni giorno, per cambiare il mondo che le discrimina, le violenta e le uccide.

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(Marielle Franco a Rio de Janeiro nel 2016, foto di Mídia NINJA)

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Zona Disagio. Arcore, amore mio

di Claudio Geymonat

Sono forse un po’ deviato, ma vedere Patrizia De Blanck in televisione a me richiama sempre alla mente altre storie. Storie che sono tornate prepotentemente nei miei pensieri in questi giorni in cui l’intramontabile Silvio Berlusconi con una serie di telefonate alle trasmissioni di Fabio Fazio e Giovanni Floris ha compiuto, a dar retta alle cronache sdolcinate del giorno dopo, un ulteriore passo verso quel finale da Padre della Patria che l’ex cavaliere in fondo sogna da sempre. 

Il Quirinale è naufragato anni fa, ma un bell’ultimo giro di giostra da gran burattinaio non se lo vuole negare.

Oddio, la De Blanck a dire il vero c’entra proprio poco, se non nulla. Ma il caso ha voluto che il secondo marito della salottiera televisiva di cui sopra, l’amatissimo Giuseppe Drommi, sia stato il primo marito di Anna Fallarino.

E qui si aprono molti file sul nome legato a una tragica vicenda di cronaca. La Fallarino, sposata Drommi, a Cannes conosce il marchese Camillo Casati Stampa di Soncino, ricchissimo, ma ricchissimo davvero, proveniente da una delle più antiche famiglie nobili milanesi. Il Casati spenderà, si dice, un miliardo di lire del 1958!, per ottenere l’annullamento del matrimonio Fallarino-Drommi dalla Sacra Rota, e impalmare un anno dopo la donna, travolti da una passione irresistibile. La loro storia erotica sessuale, ricca di voyeurismo ed esibizionismo, sfociata nel 1970 nell’omicidio da parte del marchese di Anna Fallarino e di un giovane amante, prima di rivolgere l’arma contro se stesso, ci interessa qui soltanto per i risvolti economici seguenti.

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Zona Disagio. L’Ungheria riscrive (ancora) un pezzo di storia

Il comunismo, l’olocausto e adesso la letteratura. Il progetto di Viktor Orbán di riscrivere la storia ungherese prosegue da anni a tappe forzate, con qualche inciampo, ma con un obiettivo a medio e lungo termine: allevare una generazione di compatrioti ignari del vero percorso delle vicende del loro Paese. 

Un obiettivo pericolosissimo sempre, a qualsiasi latitudine, molto più dello sbraitare sovranista che il premier riserva ai nemici di turno, siano essi l’Europa, i migranti, le organizzazioni non governative.

Primo ministro dal 1998 al 2002 e poi ininterrottamente dal 2010 a oggi e chissà per quanto ancora, Orbán sta avendo tutto il tempo per forgiare la Storia a suo uso e consumo. 

Dallo scorso anno i libri di testo che le scuole possono adottare sono solamente quelli prodotti dallo Stato: abolita l’editoria privata e via libera a pubblicazioni dove «l’immigrazione è un pericolo per i valori tradizionali ungheresi», dove «L’Unione Europea è un organismo che favorisce gli Stati del Sud Europa», dove il concetto di multiculturalismo viene spiegato con una fotografia della stazione di Budapest invasa dai migranti nel 2015, in cui si spiega che «i maschi sono più bravi delle femmine in matematica». Solite proteste accademiche, solito silenzio dei media quasi tutti assoggettati, e la notizia passa in sordina.

L’operazione è gigantesca: per questo Orbán si è circondato di una serie di docenti, storici e ricercatori compiacenti. Fra tutti spicca certamente Maria Schmidt, potentissima consigliera e animatrice di alcune delle più discusse iniziative culturali di questi ultimi anni. Prima fra tutte in ordine di tempo il museo del Terrore, dove nazismo e comunismo sono equiparati ed è anzi l’occupazione sovietica a occupare il maggior spazio e, pare di comprendere, le maggiori attenzioni critiche.

Da anni Maria Schmidt tenta di aprire il museo dell’Olocausto, ma qui sta facendo i conti con quel che resta della comunità ebraica del Paese, quasi tutta sterminata durante la Seconda guerra mondiale. L’idea di raccontare un’Ungheria non colpevole, in balia del giogo tedesco, costretta a chinare la testa di fronte a soprusi altrui, proprio non va giù agli eredi dei deportati. 

Ora l’ultimo caso: l’inaugurazione di una casa museo dedicata alla memoria dell’unico premio Nobel per la letteratura magiaro, Imre Kertész, nel tentativo di trasformarlo in un eroe nazionale in chiave anticomunista. Finiscono in soffitta, o meglio sotto il tappeto, i feroci attacchi di cui lo scrittore ebreo fu vittima da parte dei partiti di destra, compreso il Fidesz di Orbán, al momento della vittoria del Nobel nel 2002, soprattutto per le parole sull’Olocausto, gli orrori del nazismo e le complicità ungheresi. 

Oggi il governo preferisce recuperare le prese di posizione contro il comunismo, dimenticando quello che lo stesso Kertész aveva dichiarato in un’intervista del 2012 a Le Monde: «Niente è cambiato in Ungheria, tutto è uguale a come era nel regime di Kádár, solo che ora è Orbán che incanta il paese». 

A ricordarcelo per fortuna ci pensa Eva S. Balogh, ex insegnante di Storia dell’Europa orientale all’Università di Yale e curatrice del blog “Hungarian Spectrum”, che aggiunge altre battute da quell’intervista: «L’Ungheria si rivolta contro l’Europa per la tutela dell’interesse nazionale, il che può dare l’impressione che il Paese stia riguadagnando la sua sovranità. L’Ungheria ha torto, e ciò non è nuovo nella storia del paese». E ancora: «Gli ungheresi si renderanno conto che stanno andando nella direzione sbagliata e Orbán fallirà». In breve, ci vorrà uno sforzo eroico per trasformare Kertész in un personaggio che si adatti allo stampo per lui creato da Orbán, ma sono sicuro che nessuno sforzo sarà risparmiato per rimodellarlo in un vero scrittore “nazionale”.

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Zona Disagio. Cronache da Lesbo e Samos, Europa

C’è lockdown e lockdown

Sono passati due mesi da quando un incendio, la notte del 9 settembre, ha completamente distrutto il campo profughi di Moria, a Lesbo. Tredicimila persone sono scappate dalle fiamme riversandosi in strada, lasciandosi (di nuovo!) tutto alle spalle, perdendo le poche cose che possedevano e i documenti per la richiesta d’asilo, fragile filo che li legava all’Europa. Fuori, nella notte, mentre il fuoco sulla collina continuava a bruciare, hanno trovato ad attenderli i lacrimogeni della polizia, accorsa a contenere la fuga. 

Hanno vissuto per strada, nei cimiteri, con poca acqua e cibo portato dalle organizzazioni umanitarie, in attesa che le istituzioni locali ed europee decidessero di loro: quella che poteva essere un’opportunità per ripensare la tragica condizione dei richiedenti asilo bloccati nelle isole greche è stata invece l’ennesima conferma dell’indifferenza dell’Europa.

Un nuovo campo è stato montato in pochi giorni lungo la strada principale, a ridosso del mare ed esposto alle intemperie: è stato classificato come temporaneo, ma sembra ormai evidente che i circa settemila occupanti dovranno rassegnarsi a passare l’inverno lì, all’incrocio dei venti che in questa stagione soffiano forti, con il freddo, su un terreno che quando piove (l’abbiamo già visto) si allaga e diventa una piscina di fango. Non c’è acqua corrente, non ci sono fogne, i bagni chimici sono insufficienti e ancora – dopo due mesi – non c’è una doccia per lavarsi. 

Intanto, è stato chiuso dalle autorità il centro per persone vulnerabili di Pipka, uno dei pochi esempi virtuosi di accoglienza; i 74 occupanti sono stati trasferiti per il momento nel campo di Kara Tepe, lungo la strada principale, non lontano dal nuovo centro governativo.

Ora anche sulla Grecia è sceso un nuovo lockdown per contenere la pandemia e per chi vive nel campo significa una cosa sola: essere chiusi dentro, come in una prigione, ma da innocenti. Una plastica prefigurazione di quello che dovrebberoro diventare i nuovi campi profughi secondo le previsioni della nuova legge sull’immigrazione, voluta dal premier Kyriakos Mitsotakis ed entrata in vigore il 1° gennaio 2020.

Muore il figlio nella traversata verso Samos: incarcerato

Le cronache della frontiera ci pongono quotidianamente davanti a incredibili escalation di orrore. Sabato notte, il 7 novembre, è annegato al largo dell’isola di Samos un bambino di sei anni mentre tentava, insieme al padre e ad altre persone, di attraversare quel braccio di mare che separa la costa turca dalla Grecia. Il padre, un giovane afgano di 25 anni, è riuscito a sbarcare ed è stato subito arrestato dalle autorità con l’accusa di aver messo in pericolo la vita del figlio: se condannato, rischia fino a dieci anni di carcere.

Le stesse autorità che ignorano volutamente i respingimenti dei gommoni provenienti dalla Turchia oggi mettono in cella un padre disperato: le stesse autorità, greche ed europee, che chiudono gli occhi quando imbarcazioni guidate da uomini incappucciati, o la stessa Guardia Costiera, ributtano i migranti in acque turche con manovre pericolose e azzardate, non hanno remore a imprigionare un uomo sotto choc per la morte del figlio.

Intanto oggi, 11 novembre, un nuovo incendio ha colpito il campo profughi che accoglie circa quattromila persone. È il secondo in una settimana; altri due incendi dolosi erano stati appiccati allo stesso campo a settembre. 

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(foto: Stefano Stranges, controlli al nuovo campo profughi di Lesbo, settembre 2020)

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Zona Disagio. In Algeria morto Bouregaa, simbolo e protagonista delle rivoluzioni del Paese

Ora Lakhdar Bouregaa potrà finalmente riposare. È morto il 4 novembre ad Algeri. Dopo una vita contro, sempre.

Nato nel 1933, nel 1956 si unisce al Fronte di Liberazione nazionale, che dal 1954 al 1962 combatte contro la presenza coloniale francese nella terribile guerra d’Algeria che tanti strascichi ha lasciato nelle relazioni fra Parigi e l’Africa.

Dopo l’indipendenza, è fra i fondatori del Fronte delle forze socialiste e viene eletto deputato alla prima Assemblea nazionale.

Di fronte all’avanzare di forze autoritarie e allo svanire delle istanze di libertà che avevano acceso tante speranze, sceglie di contrastare da subito Houari Boumedédiène, salito al potere nel 1965 con un colpo di stato.

Arrestato nel 1967, torturato a lungo, nel 1969 viene condannato a trent’anni di carcere ma liberato solo sei anni dopo, nel 1975.

Da allora continuerà a criticare i futuri presidenti: Chadli prima, l’eterno Bouteflika poi.

L’ultima stagione della sua vita lo rivede protagonista assoluto, unico filo rosso rimasto a far da collante fra i “vecchi” che avevano fatto la rivoluzione e i giovani che dal febbraio 2019 hanno invaso le strade delle città algerine per dire basta all’ennesimo tentativo di Bouteflika di rimanere al potere. Bouregaa in varie interviste e comizi manifesta un sostegno senza riserve all’Hirak, il grande movimento di protesta che scuote il paese. Manifestazioni di dimensioni enormi che appena tre mesi dopo, nell’aprile 2019, portano infine alle dimissioni di Bouteflika. Manifestazioni poi sedate con la violenza, ancora una volta, dagli anziani gerarchi, veri custodi dello Stato.

A giugno 2019 per Bouregaa si riaprono di nuovo le porte del carcere nonostante l’età, 86 anni, a seguito di dichiarazioni in cui accusa il generale Ahmed Gaïd Salah, il nuovo-vecchio uomo forte del regime, di aver già scelto il futuro presidente della Repubblica e di prepararsi ad allestire  elezioni farsa. Verrà rilasciato solo il 2 gennaio di quest’anno, insieme a vari altri attivisti dell’Hirak, dopo mesi di proteste internazionali.

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Zona disagio. Dalla Francia, buone notizie per migranti e solidali

Le frontiere sono il simbolo reale e allo stesso tempo politico della non accoglienza praticata dai Paesi più ricchi, dagli Stati Uniti all’Europa tutta fino all’Oceania, nella cieca illusione dei governanti di turno di bloccare oltre i propri steccati i 272 milioni di migranti internazionali che nel 2019 hanno lasciato le proprie abitazioni e lo Stato di origine, pari al 3,5% della popolazione mondiale. 

Dalla Francia in questi giorni sono giunte due notizie che vanno controcorrente e mostrano un volto diverso dei confini, volto di accoglienza e solidarietà.

La prima.

Oltre 40 mila firme in poche settimane hanno fatto tornare sui suoi passi il nuovo sindaco di Briançon, comune francese a pochi chilometri dal confine italiano piemontese, diventato in questi anni luogo di transito per le migliaia di persone che tentano di proseguire attraverso le Alpi il viaggio iniziato in Africa o in Medio Oriente. Nessuna chiusura dunque del Rifugio solidale che dal 2015, grazie al lavoro di tantissimi volontari, ha accolto, rifocillato, indirizzato, curato, più di diecimila persone alle prese con l’attraversata delle montagne.In una lettera del 26 agosto, infatti, il primo cittadino Arnaud Murgia aveva invitato l’associazione “Refuges solidaires” a liberare l’edificio, di proprietà dell’associazione intercomunale che federa i municipi della zona, «entro e non oltre il 28 ottobre». L’occupazione dei locali era consentita da una convenzione, scaduta a giugno, che il sindaco ora non vuole rinnovare.

«Grazie a ciascuna delle vostre voci – si legge nel comunicato stampa di“Refuges solidaires” – di fronte a questa massiccia mobilitazione, il sindaco di Briançon ha riconsiderato la sua decisione di sgomberare il Rifugio. La gente del posto continuerà quindi ad accogliere gli esiliati per tutto l’inverno. Questa è una prima vittoria per la mobilitazione! In vista della primavera, sono allo studio soluzioni di accoglienza sostenibili, con l’aiuto di ong e partner».

Va ricordato che grazie a queste informali e benefiche “pattuglie di confine” francesi allestite dai cittadini con le associazioni umanitarie Tous Migrants e Médecins du Monde, migliaia di rifugiati smarriti, esausti e in ipotermia sono stati soccorsi e messi al riparo. 

La seconda.

Il docente universitario di Nizza Pierre-Alain Mannoni è stato scagionato nei giorni scorsi da tutte le cause a suo carico. Nel 2016 era stato arrestato al casello autostradale di La Turbie, appena dopo Ventimiglia, in territorio francese, perché stava trasportando in auto tre donne eritree ferite. Il suo è stato uno dei primi casi, insieme a quello di Cédric Herrou, che hanno contribuito a portare ampio dibattito sul tema dell’accoglienza in questo angolo d’Europa.

L’attivista è stato assolto dalla Corte d’appello di Lione dopo tre anni di battaglie combattute nei tribunali. Già assolto a Nizza in primo grado nel gennaio 2017, l’insegnante era stato poi condannato a due mesi di carcere con sospensione della pena dalla Corte d’Appello di Aix-en-Provence e aveva dunque presentato ricorso alla Corte Suprema. L’alta corte aveva annullato la sua condanna nel dicembre 2018 e deferito il caso alla corte d’appello di Lione, sulla base delle nuove norme dettate dalla Corte Costituzionale francese. 

Nel luglio di quello stesso 2018, i giudici costituzionali avevano infatti sancito che il “principio di fraternità”, l’aiuto disinteressato al soggiorno irregolare «non è passibile di conseguenze giuridiche», e obbligato così il governo a riscrivere la legge specificando che, mentre l’assistenza all’ingresso nel territorio nazionale è ancora reato, l’aiuto alla circolazione interna e l’accoglienza non sono punibili se effettuati per scopi umanitari e senza compensazione.

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Zona Disagio. Siria, la strage infinita

«Perdonami se ti ho mandata a scuola, stamattina». Queste le parole che una madre disperata avrebbe pronunciato davanti al corpo della sua bambina, uccisa da una bomba mentre stava camminando verso la sua classe, la mattina del 4 novembre nella provincia di Idlib, in Siria. Secondo la denuncia dell’ong Save The Children, almeno altri tre bambini sono morti e decine di persone sono rimaste ferite da un attacco aereo, che le fonti locali identificano come russo. A Kafraya, a pochi chilometri da Idlib, è stata colpita anche una scuola elementare: poteva essere una strage. Il bombardamento è l’ennesimo episodio di violenza che si abbatte su una regione traumatizzata da quasi dieci anni di guerra e da una realtà quotidiana fatta di morti, terrore e miseria. Lungo la linea del fronte di Idlib, infatti, si concentra quel che resta dell’opposizione al regime di Bashar el-Assad e il cessate il fuoco dicharato a marzo fra Turchia e Siria non è bastato a spegnere le ostilità e la violenza indiscriminata sui civili. Come se non bastasse, sempre qui, dove un anno fa si suicidava, braccato dai militari americani, il sedicente califfo dell’Isis Abu Bakr al-Baghdadi, gli Stati Uniti il 22 ottobre hanno lanciato un’offensiva pesantissima con l’obiettivo di stroncare la riorganizzazione di Al-Qaeda nella zona.

Nelle ultime due settimane, per equilibri geopolitici che probabilmente travalicano i confini siriani, è aumentata notevolmente la tensione fra le forze governative, sostenute dalla Russia, e le varie milizie anti Assad, in parte almeno appoggiate dalla Turchia. Se l’accanimento contro la popolazione civile da entrambe le parti non è purtroppo una novità, come documenta un rapporto della Commissione d’inchiesta sulla Siria dell’Onu l’espansione dell’area di attacco anche in zone considerate sicure del governatorato di Idlib segnala un preoccupante aggravarsi della situazione nel nord-ovest siriano. Lo conferma lo staff di Medici Senza Frontiere, che ha dovuto operare persone ferite da attacchi aerei provenienti da un’area dove fino a qual momento non si erano verificati bombardamenti. 

Secondo gli ultimi dati raccolti dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, nel solo mese di ottobre il numero di vittime provocate dal conflitto in Siria ha raggiunto quota 600, di cui 104 civiliUn segnale di allarme, che si aggiunge alla crisi sanitaria dovuta alla pandemia e alla tragedia degli sfollati interni, un milione di persone che nel 2020 sono state costrette a lasciare le proprie case e a vivere in campi profughi esposti alle intemperie – nell’ultima settimana le forti piogge hanno allagato nove centri per sfollati – o spinte lungo la strada traditrice che porta verso un’Europa sempre più blindata. 

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(foto Stefano Stranges, “Nel quartier generale del Free Syrian Army”, Aleppo, luglio 2013)

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Fermata obbligatoria in zona disagio

Oggi, nella regione in cui viviamo, inizia un nuovo lockdown. Chiusi bar, ristoranti, teatri, palestre e negozi ritenuti non indispensabili, studenti dai 12 anni in su a casa davanti ai pc, vietato andarsene in giro senza autorizzazione. Non ci si può vedere e studiare è di nuovo, sempre più acutamente, un privilegio. Le fabbriche restano aperte, però, ché bisogna produrre e spendere: il capitalismo trova nelle soluzioni per contenere la pandemia la sublime realizzazione del profetico “produci consuma crepa” dei CCCP.

Una fermata obbligatoria, e dobbiamo rispettarla; però, se siamo sufficientemente in salute e abbiamo ancora di che apparecchiare la tavola, abbiamo ancora la libertà di immaginare un’alternativa al livore da social (che peraltro sfianca di noia con la sua ripetitività) ed è l’attenzione a quel che va oltre noi e la chiusura a cui siamo (di nuovo) costretti. Un tentativo di giornalismo non troppo di moda in Italia ma a cui siamo tenacemente affezionati.

Proveremo allora in questo blog a darvi qualche notizia un po’ laterale, pochi commenti e più fatti, magari di quelli che non si vedono perché stanno nei coni d’ombra delle disuguaglianza, della discriminazione e dello squilibrio. Scriveremo di quel che non si vende ma che è essenziale: migrazioni, femminismi, lotte; anche di libri, perché ci piacciono e perché ce n’è bisogno. Vi chiediamo di rimanere con noi in una situazione di disagio per le ingiustizie, di essere inquieti, di rifiutare le semplificazioni della retorica e di non temere la complessità. Aiutateci, se credete, a ragionare. Regalateci foto o disegni, se vi va di contribuire. C’è persino una newsletter, se volete che questo blog vi affligga non dico ogni giorno ma comunque abbastanza spesso: per la vostra dose di disagio periodico, scrivete a amargipress@gmail.com e vi metteremo in lista.

A presto, allora. Niente Stati Uniti, domani iniziamo con una bella (pessima) notizia sulla guerra in Siria, che si vorrebbe finita ma che finita non è.

E, sì, Zona disagio è anche il titolo di un libro di Jonathan Franzen.

(Nella foto, Jimi Hendrix disegnato da Moebius, https://flashbak.com/moebius-illustrations-jimi-hendrix-voodoo-soup-419290/)

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Lesbo e dintorni

Tutti gli aggiornamenti dal confine greco-turco

 

Lesbo, tra i dannati della terra

A Lesbo la situazione è a un punto di rottura, c’è il rischio di una pandemia e la violenza è senza controllo. I fascisti hanno preso il controllo della frontiera, intimidendo, picchiando e sfasciando macchine delle ong e giornalisti. Il fotoracconto di Federica Tourn e Stefano Stranges ospitato dal sito Q Code Mag, clicca qui

Inferno Moria


 

Dove i migranti conoscono l’inferno

La tragica condizione di Waled, Fatima, Ibrahim e degli altri 20mila migranti bloccati a Moria. Il  reportage da Lesbo di Federica Tourn con le foto di Stefano Stranges su Famiglia Cristiana in edicola dal 7 marzo 2020, qui sotto ora il testo integrale

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A Lesbo le ambulanze viaggiano senza sirene. Scivolano silenziose nel nero della notte sulle strade quasi deserte, furgoni con lucine a intermittenza, avanti e indietro dal campo di Moria all’ospedale del capoluogo Mytilene. Stridere di ruote, sbattere improvviso di portiere al pronto soccorso, urla degli operatori; a pochi passi due agenti di polizia fumano nervosamente mentre dall’ambulanza esce la barella con un ragazzo privo di conoscenza e sporco di sangue, un evidente squarcio alla gola. Inghiottito dalla sala urgenze con il suo seguito di infermieri, di lui non si saprà più nulla per giorni: è un numero su una domanda di asilo, un indesiderato, una grana – l’ennesima – per le istituzioni, che non sanno che farsene di questa gente arrivata sui barconi.

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Guerra tra bande e donne a rischio nell’inferno di Moria

Migranti feriti nel tentativo di difendersi dai furti. La notte a Lesbo scende il terrore

Di Federica Tourn, Il Manifesto 4/02/2020

Foto: Stefano Stranges

È guerra fra bande nella notte di Moria: nell’hot spot di Lesbo la notte fra l’1 e il 2 febbraio diversi migranti sono stati feriti, alcuni molto gravemente, in una rissa scoppiata in seguito a un tentativo di furto. Un ragazzo è arrivato al pronto soccorso del capoluogo Mytilene in stato d’incoscienza con una ferita al collo e almeno altre due ambulanze hanno fatto la spola fra il campo e l’ospedale. Si è trattato dell’azione di un vero e proprio commando, determinato ad approfittare del fatto che il primo giorno del mese i richiedenti asilo ritirano i 90 euro mensili messi a disposizione dal governo. «E’ stato terribile, è successo proprio vicino alla mia tenda, la strada era piena di sangue», racconta Fatima, una ragazza afgana di 24 anni. È soltanto l’ennesimo episodio di violenza sull’isola greca, dove ormai ogni notte si registrano accoltellamenti, alcuni letali: un ragazzo yemenita è stato ucciso lo scorso 18 gennaio e anche la notte scorsa ci sono stati nuovi feriti; si teme un altro morto, ma non ci sono ancora conferme ufficiali. Continua a leggere “Guerra tra bande e donne a rischio nell’inferno di Moria”

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La Bosnia nella palude dei nazionalismi

In Bosnia Erzegovina si acuiscono i problemi lasciati irrisolti alla conclusione della guerra con la partizione etnica e religiosa delle diverse zone del paese

Di Federica Tourn, (Jesus, agosto 2019)

Le acque verdi della Drina, che scorrono per trecento chilometri attraverso la Bosnia orientale, sono state per secoli al contempo una barriera naturale e un simbolo, prima di divisione fra i «turchi» e i cristiani, poi di tra- vagliato collegamento fra i due mondi. Le lotte fratricide nei secoli – racconta il premio Nobel per la letteratura Ivo An- drić – le hanno riempite di morti, fino all’ultima guerra, quella del 1992-’95, quando i cadaveri gettati nel fiume sono diventati talmente tanti da formare delle dighe.

Leggi l’intero reportage qui: reportage bosnia

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Italia terremotata

La tragedia della distruzione e il dramma della lenta ricostruzione

Di Federica Tourn (Jesus, aprile 2019)

La terra non tremava così forte dai tempi dell’Irpinia, nel 1980. È il 30 ottobre 2016 quando un sisma di magnitudo 6,5 distrugge interi paesi dell’Appennino dando il colpo di grazia ad Amatrice, già tragicamente piegata dal terremoto del 24 agosto, facendo crollare la basilica

di San Benedetto a Norcia e devastando in particolare le Marche, che contano 25 mila sfollati e danni in 85 Comuni. Quattro giorni prima, altre scosse avevano già raggiunto Visso e pro- strato il Maceratese. A partire dall’estate, il Centro Italia viene attraversato da uno sciame sismico che non vuole acquietarsi e che proseguirà fino alla primavera successiva, coinvolgendo Lazio, Abruzzo, Marche e Umbria con oltre 92 mila scosse, al- cune superiori al 5° grado della scala Richter.

Leggi qui l’intero reportage: Italia_terremotata

 

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I dimenticati dell’Appennino

A oltre due anni dal sisma del 30 ottobre 2016, che causò 25mila sfollati nelle Marche, intere comunità restano polverizzate. A Muccia le costosissime Soluzioni abitative di emergenza mostrano gravi problemi strutturali. Mentre a Tolentino la ricostruzione resta un miraggio

Di Federica Tourn (Left, 1 febbraio 2019)

“Non studio non lavoro non guardo la tv non vado al cinema non faccio sport”: Lorenzo, alla domanda su come viva la sua condizione di terremotato, risponde citando una vecchia canzone dei CCCP. La sua famiglia è dispersa, chi in Selva Val Gardena, chi a Camerino, chi ancora negli alberghi sulla costa. A Muccia, 50 chilometri da Macerata, davanti alla tenda di plastica che cerca di tenere fuori il gelo dal bar, ora ospitato in un prefabbricato, la gente si incontra, fuma una sigaretta, scambia due parole sotto il sole freddo di gennaio, prima di ripartire. Per un impegno, un’occupazione, qualunque cosa purché lontano da qui, dove non c’è più niente.

L’intervista è disponibile sul sito www.left.it

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Cristo si è fermato a Budapest

Di Federica Tourn e Claudio Geymonat (Venerdì di Repubblica, 11/01/2019)

C’è una città nel nord dell’Iraq che due anni fa ha cambiato nome: da Tel Skuf è diventata Bint Al-Majar, Figlia di Ungheria. Un ringraziamento per i massicci finanziamenti piovuti in questa fetta di Medio Oriente per precisa volontà del governo di Viktor Orbán. Intento nobile, se non fosse unilateralmente rivolto ai cristiani: «il gruppo religioso più oppresso al mondo, anche se nessuno lo sa a causa delle pressioni delle lobby islamiche internazionali». A parlare è Tristan Azbej, responsabile del primo Dipartimento di Stato per la difesa dei cristiani perseguitati, direttamente dipendente dal primo ministro, un’idea che ora il vice presidente degli Stati Uniti Mike Pence vorrebbe replicare anche a Washington. Continua a leggere “Cristo si è fermato a Budapest”

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Cristiani ortodossi verso lo strappo: Kiev lascia Mosca

Di Federica Tourn (Famiglia Cristiana, 06/12/2018)

Il presidente Petro Poroshenko ha annunciato che il 15 dicembre si terrà a Kiev, nella cattedrale di Santa Sofia, il primo Sinodo unito della Chiesa autocefala ucraina. Durante l’assemblea, che riunirà le gerarchie ecclesiastiche delle chiese ortodosse indipendenti dal Patriarcato di Mosca, verrà approvato lo statuto della neonata chiesa nazionale ed eletto il suo primate, che subito dopo andrà a Istanbul a ricevere dalle mani del patriarca Bartolomeo il tomos, cioè l’attestazione formale dell’autonomia. Continua a leggere “Cristiani ortodossi verso lo strappo: Kiev lascia Mosca”

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A venti miglia da una nuova vita

Ventimiglia e Bardonecchia, città di frontiera alle prese con la gestione dei flussi migratori che spingono verso la Francia

Di Federica Tourn e Claudio Geymonat ( Left, 1 giugno 2018)

Morts pour la France, morti per la Francia. Il cimitero di Trabouquet a Mentone, prima cittadina dopo il confine di Ventimiglia, è un terrazzo a strapiombo fra le montagne e il mare. Qui governo di Parigi e amministrazioni locali, per il centenario della fine della prima guerra mondiale, hanno dato nome e sepoltura a 1137 soldati. Traoré, Mamadou, Keita, tutti giovanissimi, tutti africani, malgasci e senegalesi in particolare, costretti a forza a render servizio a quella colonia lontana. Da quassù si vedono nitide le due strade con i relativi posti di blocco delle frontiere rispristinate, Ponte San Luigi e Ponte San Ludovico, e si vede l’imbocco del tunnel autostradale in cui lo scorso ottobre Milet Tesfamariam è morto investito da un camion nel tentativo di entrare nel Paese della sua lingua madre. Morti per la Francia, cento anni dopo. Schengen da queste parti è solo un ricordo: controlli serrati, solo per stanare da bagagliai e rimorchi la presenza dell’invasore africano. Ora che non servono, non li vogliono più. Come a Bardonecchia, frontiera alpina, dove la gendarmerie lo scorso marzo ha sconfinato entrando in un centro gestito dalla onlus Rainbow for Africa per costringere un migrante a fare un test delle urine, un chiaro gesto intimidatorio verso stranieri con velleità di ingresso nella République. Continua a leggere “A venti miglia da una nuova vita”

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40 anni e 100 passi

Di Claudio Geymonat (Riforma, 09/05/2018)

Parlava, parlava, Giuseppe Impastato, per tutti Peppino. Dai microfoni di Radio Aut, dai palchi e dalle piazze della sua Cinisi, nei cortei; denunciava e sfotteva la mafia, con un coraggio inaudito. Raccontava di affari e crimini, irrideva il capomafia Gaetano Badalamenti, la cui casa si trovava ad appena cento passi dalla sua. Lottava al fianco dei disoccupati, dei contadini. Per lui, nato in una famiglia mafiosa doc, la sfida e il pericolo erano doppi, tripli. Continua a leggere “40 anni e 100 passi”

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Tunisia, tra povertà e integralismo

Di Federica Tourn (Jesus, gennaio 2018)

Di notte Tunisi è una sterminata spianata scintillante, una metropoli di oltre due milioni di abitanti sparsi su un territorio di duecento chilometri quadrati che racchiude il nero del lago omonimo. A guardarla  più da vicino, però, si notano macchi di buio, quando le luci cedono all’oscurità in corrispondenza delle tante cité, i quartieri popolari dove le strade si stringono nei vicoli e l’illuminazione scarseggia. Ironia della sorte, la grande arteria che taglia in due la città prende il nome dal venditore ambulante che si è immolato contro le disuguaglianze: boulevard Mohamed Bouazizi divide come uno spartiacque zone ricche e luoghi disagiati, da una parte il Bardo con la sua cultura e i suoi locali e dall’altra la Cité Ettadhamen, l’agglomerato costruito illegalmente negli anni ’70 dove viveva l’attentatore che ha sparato a due poliziotti davanti al Parlamento, lo scorso 1° novembre. Quartieri blindati di ambasciate, adorne di zagare e gelsomini, e sterrate coperte di baracche costruite fra i rifiuti, dove l’acqua ristagna e le case non hanno finestre, in una vicinanza scomoda, impenetrabile, che inasprisce le tensioni.

LEGGI L’INTERO ARTICOLO QUI: Tunisia

foto Stefano Stranges

 

 

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La marcia di solidarietà attraverso il confine, lungo il sentiero dei migranti

Claudio Geymonat (Il Manifesto, 16/1/2018)

In alta val di Susa l’«emergenza» migranti non accenna a diminuire, nonostante le condizioni atmosferiche estreme. «Da 25 anni i politici ci spiegano che il Treno ad Alta Velocità è un’opera indispensabile per spostare in maniera rapida merci e persone. In questa stessa valle gli stessi politici sprangano le frontiere in faccia a donne, uomini, ragazzi, che arrivati qui dopo un viaggio nemmeno immaginabile, chiedono soltanto di proseguire il cammino. Qualcosa non funziona». Maria Grazia è tra le centinaia di persone che domenica scorsa hanno partecipato alla marcia attraverso la frontiera italo-francese per offrire sostegno ai tanti che tentano di passare il confine ma vengono respinti dalla polizia o dal gelo. Avanza nella neve con in mano la bandiera del movimento NoTav, una seconda pelle per tanti in questo lembo di Italia, tornato di nuovo alla ribalta delle cronache da quando le rotte dei migranti, di chiusura in chiusura, sono arrivate fin quassù. Con lei molta gente a piedi, da Claviere, ultimo Comune italiano, a Montgenèvre, il primo paese oltralpe. Continua a leggere “La marcia di solidarietà attraverso il confine, lungo il sentiero dei migranti”

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Il medico che ripara le donne

Di Federica Tourn (Left, 29/10/2017)

Da bambino aveva deciso di diventare medico per guarire le persone che le preghiere di suo padre, pastore protestante, non riuscivano a salvare. E’ nata così la vocazione del “dottore che ripara le donne”, il congolese Denis Mukwege, che nel ’99 ha fondato il Panzi Hospital a Bukavu, Sud Kivu, dove ha già curato più di 50mila donne vittime di violenza sessuale. Oggi che il Congo soffre per l’ennesima crisi – con il conflitto che devasta la regione centrale del Kasai e gli scontri, mai del tutto sedati, in Nord e Sud Kivu – l’incertezza per la situazione politica è ancora più pesante e forse toccherà proprio al Mukwege l’ingrato compito di convincere il presidente ad andarsene. Continua a leggere “Il medico che ripara le donne”

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Terminal Sicilia

Un reportage a puntate sulla linea di frontiera, fra i rifugiati che arrivano sulle nostre coste e gli operatori che si occupano di loro

 

valigia

Di Federica Tourn e Claudio Geymonat  (Riforma.it)

Seduta alla veranda che si affaccia sul giardino la signora Francesca, una vita dietro la cattedra, tiene in mano una grande fotografia di una foglia di acero e Mohammed, 22 anni, gambiano, chino sul tavolo, è intento a disegnarne varie copie che verranno poi colorate da Baba, 16 anni, ghanese. «Mi sembra di tornare ai tempi in cui ero circondata da ragazzi a scuola – sorride Francesca – «ma siamo tutti qui ad esser ringiovaniti grazie a questa nuova quotidianità». Il signor Francesco, 80 anni, poeta del gruppo, annuisce convinto e prepara nuovi versi da proporre in anteprima.

Siamo a Vittoria, 27 chilometri a ovest di Ragusa, alla Casa di riposo evangelica valdese dove si realizza un inconsueto scambio generazionale e culturale, un imprevisto felice dal punto di vista organizzativo ma soprattutto umano.

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Abusi nella Chiesa e coperture, fact checking alla “dottrina Zuppi”

Di Federica Tourn

Domani, 03 aprile 2023

In chiusura del festival Tempi radicali a Modena, il 2 aprile, è stato ospite di Domani anche il cardinale Matteo Maria Zuppi. Un’importante occasione di dialogo, a cui bisogna dare atto che il presidente della Cei si è prestato volentieri, pur potendo immaginare che sarebbe andato incontro anche a domande scomode. Intervistato dal direttore Stefano Feltri, si è infatti mostrato sicuro e a suo agio sui temi di cui è abituato a parlare, dalla sinodalità alle periferie esistenziali care a papa Francesco fino addirittura a confrontarsi sui diritti lgbtq e il fine vita, ma ha cambiato passo ed è apparso sulla difensiva appena si è affrontato il tema degli abusi clericali. Ha fatto però in proposito affermazioni molto interessanti: proviamo quindi a riprenderle punto per punto. 

Prima di tutto, eludendo la domanda esplicita sull’avvio di un’indagine indipendente anche in Italia, Zuppi ha cominciato a criticare l’inchiesta che Domani porta avanti da ormai un anno sulla violenza nella Chiesa cattolica, sostenendo che sono state pubblicate cose non vere: «non abbiamo mai cercato di comprare qualcuno, come avete scritto», ha detto il presidente della Cei. In almeno due casi, però, abbiamo documentato che sono stati offerti 25mila euro alle vittime in cambio del silenzio sulla trattativa economica: è successo in provincia di Alessandria a Massimiliano Gamalero, vittima di don Carlo Bottero, reo confesso, e ad Antonio Messina, abusato a Enna da don Giuseppe Rugolo (oggi sotto processo per violenza sessuale su minori). Entrambi hanno ricevuto una proposta di “risarcimento” da parte della Chiesa: nel caso di Messina dal vescovo di Piazza Armerina Rosario Gisana, come si evince dalle intercettazioni agli atti, e in quello di Gamalero è arrivato addirittura un bonifico da parte del prete con la mediazione del vescovo di Acqui Luigi Testore. Sappiamo poi che altri casi di trattativa economica “privata” fra la Chiesa e le vittime sono andati a buon fine.

«I primi che hanno consapevolezza e interesse a contrastare gli abusi siamo noi», ha poi sottolineato Zuppi, aggiungendo però che, «per evitare che a qualcuno venga il dubbio che ce l’avete con noi», Domani dovrebbe fare inchieste anche sulla famiglia e sulla scuola, responsabili, secondo il cardinale, del «95% degli abusi che ci sono in Italia». In primo luogo, sorprende questa percentuale: qual è la fonte di Zuppi, visto che non ci sono dati pubblici? Nel merito dell’affermazione, bisogna poi dire che la Chiesa non può in alcun modo essere messa sullo stesso piano della scuola e della famiglia: non solo per la levatura morale e il ruolo sociale che l’istituzione religiosa rappresenta e vanta, ma perché la gerarchia ecclesiastica ha fino ad oggi considerato l’abuso sessuale, anche sui minori, come un peccato che riguarda colui che lo commette, e non un reato. Senza contare che il pedofilo nella Chiesa ha finora potuto contare su un’organizzazione che in molti casi lo ha protetto con l’omertà e lo spostamento in altra diocesi, in certi casi agevolandone la fuga con vari espedienti, come è successo a don Silverio Mura, prete napoletano ritrovato in provincia di Pavia con il nome di don Saverio Aversano. 

Molto ci sarebbe poi da dire sul «rigore estremo» con cui papa Benedetto XVI e papa Francesco hanno affrontato il problema. Papa Francesco, in questi dieci anni sugli abusi ha detto molto ma fatto poco e finora non è riuscito a scardinare quel sistema di potere che rende la violenza clericale endemica. Nonostante Bergoglio abbia tolto il segreto pontificio sulle cause degli abusi (invece ribadito da Ratzinger nel 2001), di fatto vige ancora la massima riservatezza su decreti, testimonianze e carte processuali.

Il presidente della Cei ha poi annuciato che i nuovi report sugli abusi nella Chiesa saranno pronti il prossimo novembre (ricordiamo che il 17 novembre 2022 è stato presentato il primo rapporto della Cei, che prendeva in esame l’attività dei Servizi diocesani e le segnalazioni arrivate ai centri di ascolto delle diocesi nel biennio 2020-2021) e riguarderanno «non solo i numeri ma anche il tipo di reati commessi negli ultimi vent’anni». Zuppi ha spiegato che la ricerca si limita a vent’anni (e non i tradizionali settanta, come la maggior parte delle indagini commissionate negli altri paesi) «perché di questo periodo abbiamo i dati su cui lavorare e evitiamo il rischio di avere soltanto delle proiezioni». Il cardinale ha omesso di esplicitare che anche questo report, come il precedente, sarà redatto non da una commissione indipendente ma da un’istituzione legata alla Chiesa, che non garantisce la necessaria terzietà. Senza contare che i dati ecclesiastici sono parziali (la Cei ha parlato di 613 fascicoli depositati al Dicastero per la dottrina della fede) perché non tengono conto di chi non si è rivolto all’autorità ecclesiastica per denunciare le violenze. Inoltre, limitare l’indagine a vent’anni esclude a priori le vittime emerse in precedenza e non tiene proprio conto di quanti non hanno ancora maturato la consapevolezza di aver subito un abuso: è noto infatti che molti hanno bisogno anche di trenta o quarant’anni per elaborare il trauma subito.

Zuppi è poi entrato nel cuore del problema, sostenendo che le linee guida della Chiesa sono severissime e che i casi di abuso vanno denunciati alle autorità dello Stato. «Il problema però – ha poi precisato – è che a volte le persone non vogliono rivolgersi alla giustizia penale. A me personalmente è capitato due volte: due persone che mi hanno fatto segnalazioni ma non volevano andare al commissariato», sottolineando che in questi casi «vengono fatte firmare delle dichiarazioni alle vittime», che sollevino dalla responsabilità la Chiesa. Incalzato dal direttore, che gli chiedeva se a quel punto è il vescovo che fa la denuncia all’autorità dello Stato, Zuppi ha ribadito: «no, se la persona non vuole, no. Esiste però una giustizia ecclesiastica che funziona benissimo e non bisogna dire che è connivente (con gli abusatori, ndr)». Questo è un passaggio cruciale, perché dalle parole del presidente della Cei si evince che, nonostante l’obbligo morale sancito dal motu proprio papale Vos Estis Lux Mundi, che esorta il clero alla trasparenza e alla denuncia dei responsabili all’autorità civile, i vescovi continuano a rivolgersi solo ai tribunali interni. Sul fatto che questi ultimi funzionino bene, c’è solo la parola del cardinale, visto che gli esiti delle indagini ecclesiastiche non vengono rese note nella maggior parte dei casi nemmeno alle vittime. Su come sono condotte queste indagini, invece, da quel che trapela dai documenti a nostra disposizione c’è poco da stare allegri: nel sopracitato caso di don Rugolo, per esempio, monsignor Gisana viene ripreso durante la fase delle indagini preliminari proprio sul modo in cui ha condotto l’investigatio previa, che viene definita «monca» dal pm che lo interroga. Il vescovo, infatti, non solo non si era preoccupato di convocare diversi testimoni, ma nemmeno aveva sentito il prete accusato. 

Interpellato infine sul mancato coinvolgimento delle vittime nel processo di indagine sugli abusi, il cardinale Zuppi ha sostenuto che, invece, alcune di loro sono state ascoltate e ha citato un’udienza avvenuta al Consiglio permanente della Cei. Decisamente poco, se si aggiunge che Francesco Zanardi, presidente della Rete L’Abuso, ricevuto due volte in udienza privata proprio da Zuppi, ha definito gli incontri «deludenti» e l’atteggiamento del cardinale «autoritario». La Cei non si è poi nemmeno data la pena di rispondere alle lettere del coordinamento Italy Church Too, nato nel 2022 proprio per dare voce ai sopravvissuti alla violenza clericale. Anche a Modena, non una parola è venuta da Zuppi sul dolore delle vittime e sulla necessità che ricevano un risarcimento (trasparente) per quanto hanno subito, come accade invece in Francia e in Germania.

«E poi c’è sempre la giustizia ecclesiastica e Roma: un po’ di meccanismi di certezza del diritto per la vittima ci sono», ha concluso Zuppi, riferendosi ovviamente al ruolo di garante del papa. Purtroppo, pensando alla vicenda complessa e tutt’altro che chiara di Rupnik, e del ruolo per nulla trasparente avuto da Bergoglio nella scomunica del gesuita accusato di abusi su diverse suore, sorgono molti dubbi sulla «certezza del diritto» garantita dalla Santa Sede. Roma giudica, in effetti, come ha detto il presidente dei vescovi, ma a noi ancora rimane da capire in che modo. 

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Pedofilia, le buone lezioni e i cattivi esempi della Chiesa nella Sicilia degli scandali

Di Federica Tourn

Domani, 28 marzo 2023

A pochi giorni dall’aggiornamento del motu proprio del papa Vox Estis Lux Mundi, una parte della chiesa siciliana il 30 marzo torna a occuparsi di abusi, con un convegno organizzato alla Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia “San Giovanni Evangelista” di Palermo dal titolo “La tutela dei minori e delle persone vulnerabili: un impegno comune”. Una parata di nomi illustri, del calibro dell’arcivescovo della città Corrado Lorefice, a cui è affidata l’introduzione, per proseguire con padre Andrew Small, segretario della Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori, e con l’arcivescovo di Ravenna Lorenzo Ghizzoni, presidente del Servizio nazionale per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili della Cei, che parlerà dell’impegno della chiesa cattolica a partire dal primo report sulle attività di tutela dei minori diffuso lo scorso novembre. Un dossier a dir poco parziale e poco rappresentativo della realtà italiana perché, come abbiamo raccontato su Domani il 17 novembre, prende in esame soltanto l’attività dei Servizi diocesani e le segnalazioni arrivate ai centri di ascolto di 158 diocesi su 226 nel biennio 2020-21.

L’obiettivo del convegno è ambizioso: partire da una riflessione sulla chiesa universale per concentrarsi sulle azioni di quella italiana e infine dare voce alle esperienze locali. Un’iniziativa voluta dalle diocesi di Palermo, Monreale, Cefalù, Trapani e Mazara del Vallo con il patrocinio, fra gli altri, del Servizio nazionale per la Tutela dei minori della Cei. Peccato che non si sia pensato di coinvolgere altre diocesi dell’isola, come Piazza Armerina, che pure manda i suoi seminaristi a studiare nell’istituto palermitano. Proprio la diocesi di Piazza Armerina, in realtà, avrebbe molto da dire sull’abuso clericale, anche se non può certamente vantare una gestione esemplare del problema. Ad Enna, dal 7 ottobre 2021 è infatti in corso il processo a don Giuseppe Rugolo, un sacerdote molto popolare nella città dell’entroterra siciliano, oggi accusato di violenza sessuale su tre minori. Una vicenda ricca di colpi di scena che coinvolge diversi personaggi, non ultimo il vescovo di Piazza Armerina Rosario Gisana che, intercettato, prima ammette di aver insabbiato gli abusi di Rugolo e poi cerca di salvare capra e cavoli (sé stesso e la diocesi), con totale indifferenza per le vittime (come riportiamo su Domani del 14 novembre). Una storia che svela sempre nuovi capitoli: durante l’ultima udienza del 14 marzo, infatti, si è arricchito l’elenco degli insulti del vicario generale della diocesi Nino Rivoli che, in un’intercettazione riportata in aula, apostrofa con l’epiteto di “bestia” don Giuseppe Fausciana, l’unico sacerdote che a Enna si è fatto portatore della denuncia della vittima di Rugolo, Antonio Messina. Don Rivoli, nel suo tormento per la spinosa situazione in cui si è venuto a trovare il vescovo, durante numerose telefonate intercettate dagli inquirenti non aveva risparmiato insulti all’imputato, definito “buttana” e “questa troia”, mentre Messina – il ragazzo che ha subito violenza sessuale quando era minorenne – è addirittura un “bastardo”.

La novità più eclatante del processo Rugolo, però, non è certo il turpiloquio del vicario o l’incresciosa gaffe di un altro sacerdote locale, don Pietro Spina, che in aula definisce «affettuosità» ogni atto sessuale che prescinde dalla penetrazione, ma l’inquietante realtà dei pedofili alla corte di monsignor Gisana: sacerdoti e catechisti dai trascorsi non proprio immacolati, il cui numero cresce ad ogni udienza. Infatti, ogni volta che Eleanna Parasiliti Molica, avvocata di parte civile, incalza i testimoni sui casi di abuso, in tribunale cala il gelo. Il 10 ottobre era già emerso il nome di un altro prete che aveva abusato di un minorenne: entrambi, l’abusatore e la sua vittima, sono oggi parroci della diocesi. Il vescovo Gisana sapeva tutto, come si evince dalle intercettazioni, cosi come sapeva di un sacerdote di Gela, don Vincenzo Iannì, rinviato a giudizio nel 2019 per violenza su una ragazzina. Nell’ultima udienza del 14 marzo Gela si conferma una piazza “calda”: non solo annovera un catechista arrestato per violenza sessuale aggravata, al momento sotto processo, ma anche un educatore di 32 anni, che avrebbe abusato per anni di un ragazzino, oggi ventiduenne. Come emerge dalle indagini difensive svolte anche dall’avvocata Parasiliti Molica, la vittima aveva denunciato più volte gli abusi al vescovo ma Gisana non è mai intervenuto. 

In aula, è sempre l’avvocata di Messina a chiedere conto di questo educatore a un reticente don Vincenzo Murgano: il prete, vicario giudiziale della diocesi e (cosa ancora più grave), responsabile del Servizio di tutela dei minori fino al dicembre 2022, riconosce alla fine di non aver mai preso provvedimenti per i casi di abuso di cui era a conoscenza. «Ha detto candidamente che sapeva da tempo di don Iannì, ben prima che fosse processato – riporta Antonio Messina – e per quanto riguarda gli altri nomi fatti in aula ha sostenuto invece di non essere mai stato informato dal vescovo, pur essendo il responsabile incaricato per la tutela dei minori». Monsignor Gisana, quindi, sa dei preti pedofili di casa propria ma non parla nemmeno con la persona deputata ad occuparsene. 

Se don Murgano tace sui pedofili della diocesi, in compenso parla, e molto, con Rugolo. In udienza emerge infatti che Murgano era il consigliere personale del giovane prete, quando già questo era sottoposto all’indagine ecclesiastica (poi conclusa con un “non luogo a procedere” perché i fatti si sarebbero svolti quando era ancora seminarista e dunque non ritenuti di pertinenza della Congregazione per la dottrina della fede). Fra messaggi e telefonate, i due si sentono ogni giorno e don Murgano incita Rugolo a controllare Antonio Messina sui social, oltre a sobillarlo contro don Fausciana, la “bestia”, colpevole di sostenere la vittima e coinvolgerla nelle attività pastorali. 

La prossima udienza in calendario il 4 aprile, con 21 nuovi testimoni chiamati a deporre, promette di scaldare ulteriormente gli animi. Intanto si avvicina la Pasqua e la processione del Venerdì santo, particolarmente sentita in città, vedrà in testa don Murgano, in quanto parroco della Chiesa madre e assistente spirituale di ben quattro confraternite cittadine, quasi a rassicurare i fedeli che nulla è cambiato. L’imbarazzante quadro della curia che emerge dal processo a don Rugolo, gli opposti schieramenti pro e contro don Fausciana e soprattutto le complicità della gerarchia, monsignor Gisana in primis, cominciano però a pesare non poco sul contesto cittadino. 

Intanto a Palermo va in scena lo spettacolo delle buone intenzioni della Chiesa contro gli abusi, con il provvidenziale supporto della nuova versione di Vox Estis Lux Mundi. «Il timore – commenta Marida Nicolaci del coordinamento Italy Church Too e docente della stessa Facoltà che ospita il convegno – è che si punti sulla prevenzione futura lasciandosi alle spalle il passato, senza farsi carico delle esigenze di una giustizia autenticamente riparativa, che implica il riconoscimento delle cause sistemiche del danno e il risarcimento delle vittime». Se il convegno palermitano appare come un’operazione politica per ripulire l’immagine della chiesa siciliana e smarcarsi dai guai della diocesi di Piazza Armerina, non si può dimenticare che lo stesso don Murgano, che sta facendo clamore a Enna più per le sue reticenze che per le sue rivelazioni, è anche lui un docente della Facoltà Teologica. Così come ci sarà anche don Fortunato di Noto che, oltre ad essere il presidente dell’associazione Meter contro la pedofilia, è anche il direttore del Centro di ascolto del Servizio regionale della tutela dei minori della Cei. Don Di Noto non manca mai quando si tratta di far vedere il volto della chiesa che lotta contro gli abusi, ma è anche presente nelle intercettazioni agli atti del processo a Rugolo, mentre parla accorato con Gisana: «ti voglio un bene dell’anima», dice al vescovo, e gli consiglia «vigilanza». «Se ci riesci, traccia almeno i colloqui», aggiunge, riferendosi agli incontri con i Messina, «perché questi qua (la vittima e la sua famiglia, ndr), come stanno montando la cosa, capisci…».

Palermo, in fin dei conti, non è poi così lontana da Enna.

I Focolari e i bambini abusati. Le accuse e i silenzi vaticani

Di Federica Tourn

Domani, 28 maggio 2023

In caso di violenza clericale, oltre alla «tolleranza zero» predicata dalla Chiesa, è ormai di rito la richiesta di perdono alle vittime. Una prassi che vale anche per le comunità ecclesiali, come dimostra la «vergogna» espressa dalla presidente dei Focolari, Margaret Karram, al momento della diffusione, il 31 marzo scorso, del primo resoconto sui casi di abusi su minori e adulti vulnerabili e di abusi spirituali o di autorità avvenuti all’interno del movimento. Nel report, in particolare, si dà conto delle segnalazioni delle violenze sui minori pervenute alla Commissione interna per il Benessere e la Tutela della persona (Co.Be.Tu) dal 2014 al 2022. I risultati indicano che dal 1969 al 2012 66 membri del movimento, in tutto il mondo, sono stati accusati di aver abusato di 42 minori (29 fra i 14 e i 18 anni e 13 con meno di 14 anni) e di 17 adulti vulnerabili. 

Fondato nel 1943 da Chiara Lubich e approvato dalle gerarchie ecclesiastiche nel 1962 con il nome di Opera di Maria, il movimento dei Focolari ha la sede centrale a Rocca di Papa ed è diffuso in 182 paesi. I dati ufficiali sui membri che vivono in comunità, sia consacrati (cioè che hanno fatto voto di castità, povertà e obbedienza) che sposati, parlano di 4304 donne e 2540 uomini, a cui si aggiunge un imprecisato numero di aderenti (il sito dei Focolari parla di due milioni ma la cifra non è attendibile perché il movimento, come peraltro la Chiesa, soffre di un costante stillicidio di fedeli). 

A due mesi di distanza dalla pubblicazione dei dati sugli abusi interni, però, non si sa quali provvedimenti siano stati presi nei confronti degli autori delle violenze, né tantomeno si conoscono le circostanze, la portata e la durata nel tempo di questi abusi e, di conseguenza, nemmeno le eventuali responsabilità dei vertici del movimento. Il report comunica soltanto che di questi 66 abusatori (di cui 63 sono uomini), 20 sono stati dimessi (cioè dispensati dai voti presi), 9 sottoposti a sanzioni, 6 sospesi perché in attesa del giudizio dell’autorità ecclesiastica, 9 segnalati all’autorità giudiziaria, mentre 19 casi risultano ancora pendenti e 12 sono stati archiviati (11 in assenza di prove sufficienti e uno per decesso). In sostanza non abbiamo che qualche dato scarno, risultato di segnalazioni pervenute a una commissione interna in un periodo di tempo decisamente insufficiente. Una cosa, però, emerge chiaramente: non si tratta di poche mele marce, ma di un problema sistemico e che ha radici profonde.

Questo rapporto, più che inaugurare una nuova stagione di trasparenza, sembra la reazione dovuta, tra imbarazzo e omissioni, allo scandalo scoppiato nel movimento dopo la pubblicazione, un anno fa, dell’inchiesta della società Gcps Consulting su un ex membro consacrato francese, Jean-Michel Merlin, responsabile di aver abusato di almeno 37 ragazzi a partire dagli anni ’70. Merlin, nonostante un processo penale a suo carico per violenza sessuale su minori, aveva continuato ad avere ruoli apicali nel movimento fino al 2016, quando era stato infine dimesso dai Focolari. Quanti Merlin ci sono anche in Italia, protetti dalla negligenza, se non addirittura dall’omertà dei vertici? Nel nostro paese, almeno sei casi sono stati considerati «verosimili» dall’indagine interna della Co.Be.Tu, secondoquanto dichiaravail coordinatore della commissione, l’avvocato Oreste Moscatello, in un articolo uscito su Domani il 25 luglio scorso. Quasi un anno dopo, non sappiamo se queste persone continuino ad avere un ruolo nel movimento o siano state segnalate alle autorità dello Stato. Il rapporto non lo dice: tace sui pedofili e rende invisibili le vittime

Eppure, dopo decenni di silenzio sul tema, oggi in mano a Margaret Karram e al copresidente Jesús Morán c’è una lista di almeno cinquantacinque nomi di persone le cui responsabilità sono state accertate da una commissione interna. Nomi che però il Movimento ha deciso di non rendere pubblici. «Non li abbiamo rivelatiper garantire la privacy delle persone coinvolte. Siamo presenti in paesi che hanno approcci anche molto diversi sulle sanzioni previste per questo genere di reati: vogliamo trasparenza, ma anche salvaguardare i diritti di tutti», ha dichiarato a Domani Joachim Schwind, sacerdote e responsabile della comunicazione dei Focolari. «In alcuni Stati, per l’abuso sui minori è prevista la pena di morte – ha aggiunto Schwind – davvero vogliamo esporre a tanto i responsabili?». Resta da chiedersi perché non si possano adottare soluzioni diverse a seconda dei paesi, a cominciare dall’Europa. Schwind, che è anche membro del Consiglio generale al Centro Internazionale dei Focolari, ammette che «è un grande problema, perché le persone che frequentano i nostri incontri ci chiedono di essere protette». E come fanno a tutelarsi, se non sanno chi sono i predatori? «Il fatto è che, in assenza di una sentenza che attesti la responsabilità in sede penale, potremmo essere denunciati per diffamazione», sottolinea Schwind. Tutti i casi della “lista”, però, sono ormai prescritti per la giustizia civile e i pochi considerati non risolti sono in attesa di una decisione del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita della Santa Sede, che ha la giurisdizione sulle comunità ecclesiali. Si tratta insomma di bilanciare il diritto alla privacy con il diritto dei bambini e delle famiglie ad essere al riparo da potenziali abusatori. Questa discrezione nel rivelare i nomi non nasconde anche imbarazzanti retroscena o complicità dei vertici del movimento, se non addirittura della stessa Chiara Lubich? Certamente, il divieto di divulgare i nomi dei pedofili rappresenta per i Focolari l’indubbio vantaggio di non dover rispondere delle decisioni prese negli anni in merito a trasferimenti o promozioni. 

«I vertici non hanno parlato apertamente degli abusi sui minori nemmeno ai loro membri – dice Oscar (nome di fantasia), un ex focolarino che ha trascorso 25 anni nel movimento – ma alcuni nomi sono circolati lo stesso nelle chat di chi aveva frequentato la scuola di formazione a Loppiano, vicino a Firenze». Uno di questi, italiano, oggi ottantaseienne, ha ricoperto diversi incarichi di responsabilità nei Focolari ed è stato vicino alla stessa Lubich. «Faceva parte del sistema e le denunce di abuso lo hanno perseguitato per anni: lo spostavano da una parte all’altra del mondo per toglierlo dai guai – racconta Oscar – Io l’ho conosciuto quando era responsabile dei giovani: ci controllava, faceva commenti su come ci vestivamo – continua Oscar – una volta ammise candidamente di essere influenzato dall’aspetto fisico del candidato alla consacrazione: per lui bastava quasi che un ragazzo sorridesse e fosse ben pettinato per essere ammesso fra i focolarini». 

Chi ha affidato la formazione dei giovani a una persona che aveva già ricevuto segnalazioni di molestie? Chi era al corrente della propensione per i ragazzini di questo infaticabile missionario della parola di Chiara Lubich, che ha attraversato i cinque continenti senza essere fermato? «Non sono a conoscenza di nessun caso di abuso noto ai responsabili del movimento, nè di persone che sono state spostate e hanno continuato ad abusare», commenta Schwind, che però ammette che questa persona è stata dimessa «per gravi motivi». La stessa sanzione è stata inflitta ad altri due membri che avevano incarichi rilevanti nell’Opera, i cui nomi sono stati fatti a Domani da diverse fonti. Uno di questi, ha testimoniato un ex focolarino, aveva l’abitudine di portare i minorenni sul suo letto, dove li abbracciava e si intratteneva con loro. Schwind conferma che sono stati entrambi allontanati dai Focolari già due anni fa.

«Dove abbiamo riscontrato una verosimiglianza dei fatti, i responsabili sono stati dimessi dal movimento, anche per casi avvenuti decenni fa», precisa Schwind. Per quanto riguarda la segnalazione alle autorità giudiziarie, che secondo il report ha riguardato soltanto nove persone su 66, Schwind spiega che la commissione si è regolata secondo le leggi dei diversi paesi. «Dove non c’è obbligo di denuncia, abbiamo segnalato i responsabili soltanto se erano le vittime a volerlo; dove c’è l’obbligo invece abbiamo interrotto le nostre verifiche per non interferire con le indagini», spiega il sacerdote. «Con le nuove linee guida,entrate in vigore il 31 marzo aggiunge Schwind – abbiamo stabilito che porteremo tutti i casi a conoscenza delle autorità giudiziarie, anche nei paesi in cui non è espressamente prescritto». Alla domanda se questa decisione riguardi anche i 66 casi evidenziati nel report, Schwind ammette «che non ci hanno ancora pensato», così come non sono ancora riusciti a formare una commissione disciplinare, annunciata un anno fa, che stabilisca le complicità dei vertici del movimento nel caso di Jean-Michel Merlin. 

Dal primo maggio, la Co.Be.Tu è stata sostituita dalla nuova commissione indipendente centrale, che in realtà di indipendente ha ben poco, visto che i suoi membri saranno scelti direttamente dalla presidente Karram. La nuova commissione, a cui è affiancato un organo di vigilanza di cinque membri esterni, si occuperà soltanto della gestione delle segnalazioni, mentre la formazione verrà coordinata a livello centrale e locale da un altro team di esperti e consulenti. Un’impalcatura che dovrebbe garantire, almeno sulla carta, “la tutela integrale della persona”, come viene definito il piano anti-abusi, ma che per ora lascia trasparire molta approssimazione sulla gestione dei pedofili e vaghi accenni a non meglio precisati interventi disciplinari. Al posto di un chiaro percorso di trasparenza che assicuri giustizia alle vittime, con l’apertura degli archivi e la ricostruzione delle responsabilità personali, si preferiscono la maldicenza e la gogna sotterranea del “lo sanno tutti”, alimentata dalle voci di corridoio e dalle chat di whatsapp.

In questo quadro, delle vittime sappiamo ancora meno: quante sono, quanti anni avevano al momento degli abusi, quali sono state le conseguenze che hanno dovuto affrontare? L’Oref, Organizzazione ex focolari, un’associazione nata nel 2021 come spazio di ascolto per i sopravvissuti, non è stata coinvolta nell’indagine della Co.Be.Tu, ma Schwind tiene a dire che la presidente ha «speso molto tempo in incontri personali con altre vittime». Sulla “riparazione finanziaria” esiste un protocollo che invita chi lo desidera a farsi avanti ma non stabilisce l’entità dei risarcimenti in caso di abuso accertato: «non abbiamo stabilito cifre perché valuteremo caso per caso, anche a seconda dei paesi in cui è avvenuto il reato – dice Schwind – non sempre si parla di un aiuto economico: a volte chi si rivolge a noi chiede di essere sostenuto in un percorso terapeutico, o di trovare un lavoro o una casa».

Molti sopravvissuti, in realtà, si sono trovati di fronte a un muro. Silvia Ciccarelli, figlia di due membri attivi del movimento, nel 2016 ha addirittura mandato una lettera personale alla Co.Be.Tu e all’allora presidente dei Focolari, Maria Voce, in cui raccontava di essere stata picchiata senza pietà per anni da suo padre, ritenuto un “uomo di fede”. «Diceva sempre che lo faceva “per volontà di Dio”, così come diceva che mi picchiava in modo da non lasciare tracce o lividi, per “non darmi la soddisfazione di fare la vittima” – si legge nella lettera – Mia madre non si è mai frapposta. Ho visto vestitini nuovi, a cui tenevo, sparire nell’immondizia perché macchiati di sangue». Nè la Co.Be.Tu né Maria Voce, dice Ciccarelli, hanno risposto.

«Nel movimento continua a esserci una forte omertà sulle violenze strutturali che lo attraversano, che riguardano il sesso, la manipolazione delle coscienze, l’abuso di potere e lo sfruttamento economico – dice Oscar – Per decenni i focolari hanno organizzato happening per giovani, a cui partecipavano anche migliaia di bambini e adolescenti senza precauzioni né controlli: era un bacino di caccia perfetto per i predatori». Il terreno dell’abuso (di potere, in primo luogo) era preparato dall’obbedienza assoluta imposta da Chiara Lubich: le “pope” e i “popi”, come venivano chiamati i suoi seguaci in un linguaggio non a caso infantilizzante, dovevano «tagliarsi la testa», affidandosi totalmente a lei e ai capifocolare che la rappresentavano. «Se si voleva fare la volontà di Dio, bisognava seguire Chiara – racconta Cintia Costa – era richiesta un’obbedienza cieca, non potevi avere dubbi o fare domande». Costa ha fatto parte dai 12 ai 19 anni del movimento Gen, la sezione dei giovani, prima a Belem, in Brasile, e poi a Loppiano, dove ha subito ed è stata testimone di violenze psicologiche pesantissime su ragazzine appena adolescenti. «La nostra responsabile ci insultava senza una spiegazione, eravamo terrorizzate – racconta – io sono stata costretta a lasciare il mio fidanzato, che era in Brasile. Dato che piangevo disperata, lei si è seduta vicino a me e mi ha dettato la lettera per lui, che poi ha spedito con posta prioritaria». Non solo: Cintia racconta che nell’estate del 1992, insieme a una quindicina di altre ragazze, si è ritrovata a cucire le copertine per i diari della Benetton: «eravamo in un capannone, dove i visitatori che arrivavano a Loppiano non potevano vederci, e dovevamo applicare le etichette su queste agende – dice – Ovviamente, come per tutti i lavori che facevamo, non siamo state pagate». Una circostanza confermata anche da Oscar: «negli anni ’80 e ’90 i Focolari prendevano spesso commissioni da aziende per dei lavori, e Benetton era una di queste». Difficile pensare che la partita di agende fatta a mano dalle ragazze fosse un regalo per la multinazionale. «Per ironia della sorte, in quei giorni si vedeva ovunque la campagna pubblicitaria della United Colors of Benetton con la foto di un prete che bacia una suora – commenta Costa – e a noi ripetevano che dovevamo essere pure e che non potevamo nemmeno abbracciare i nostri amici maschi». 

Cintia e moltissime altre ragazze arrivate a Loppiano in quegli anni per fare un’esperienza religiosa si sono ritrovate in realtà alla mercé di persone che le hanno private di ogni libertà, le hanno fatte lavorare gratis e hanno persino interferito con la loro vita intima e famigliare. Silvia Ciccarelli testimonia che da bambina le fu proibito di vedere i nonni, perché considerati “non allineati” alle regole dellla comunità e quindi nocivi; a quattordici anni, inoltre, le fu fatta una visita ginecologica da un medico focolarino per accertare che non avesse già avuto rapporti sessuali. Magda (nome di fantasia), una focolarina slovena che voleva studiare, fu costretta dalla responsabile di zona a lasciare gli studi perché «i libri andavano messi in soffitta». Negli anni Settanta è stata anche molestata dalla sua capofocolare quando era alla scuola di formazione di Loppiano: «una sera, con la scusa di darmi la sua benedizione, è entrata nel mio letto e mi ha baciata – racconta a Domani – ho saputo che in seguito è stata allontanata, ma nessuno mi ha mai detto il motivo».

Se Rocca di Papa tace, Roma certo non parla: il Dicastero per i laici, la famiglia e la vita, messo al corrente dall’ex focolarina Renata Patti, già alcuni anni, fa di alcune denunce di abuso sessuale nel movimento,non ha mai dato riscontri ufficiali. Il prefetto del Dicastero, il cardinale Kevin Farrell, interpellato in proposito da Domani, non ha mai risposto e la responsabile per la comunicazione Pamela Fabiani ha spiegato che «il Dicastero tratta le segnalazioni che riceve in maniera riservata, nel rispetto dei criteri previsti dall’ordinamento canonico, in generale e specificamente per la Curia Romana, e nel rispetto delle persone coinvolte». Quindi, non soltanto non sappiamo come sono stati trattati questi casi, ma non sappiamo nemmeno se sono stati presi in considerazione o archiviati.

Per quanto la tendenza alla riservatezza (per non dire l’omertà) accomuni Focolari e Vaticano, fra i due si avverte una certa tensione, se è vero che, come attesta una nostra fonte, il Dicastero sta facendo pressione sul movimento perché metta finalmente mano ai problemi interni. «Siamo in contatto con il Dicastero e la curia romana, ma le indicazioni su cosa fare non sono univoche», ha ammesso Joachim Schwind parlando dell’opportunità di rendere pubblica “la lista”. Lo stesso papa Francesco, d’altronde, durante l’assemblea generale dei Focolari del febbraio 2021 aveva già ammonito le comunità ecclesiali di «evitare ogni autoreferenzialità». La situazione è delicata: all’orizzonte per i Focolari potrebbe esserci addirittura lo spettro del commissariamento, e la trasparenza sugli abusi è una carta importante su cui puntare, ma ci sono certamente diversi equilibri in gioco di cui tenere conto.

Foto di Comunicazione LOPPIANO

La radicalità di Zuppi: «Siamo i primi a volere la trasparenza sugli abusi»

Di Federica Tourn

Domani, 02 aprile 2023

«La Chiesa da sempre deve unire due cose: la radicalità e la complessità». Cita don Milani, il cardinale Matteo Zuppi, che con il suo intervento chiude, il 2 aprile, il festival “Tempi radicali” di Domani a Modena. Intervistato dal direttore Stefano Feltri, il presidente della Conferenza episcopale italiana parla di guerra, dialogo necessario, migranti e abusi clericali, insistendo sulla necessità di «entrare nel grigio», di interpretare la complessità dei tempi che attraversiamo contro la logica semplificante del bianco e nero. «Papa Francesco ci ha insegnato a stare nella storia – ha spiegato –  dialogo e identità devono andare insieme, non c’è l’uno senza l’altra e noi abbiamo bisogno di persone che uniscono». Sollecitato a individuare tre parole che rappresentano i dieci anni di Bergoglio, ha detto nominato la gioia, i poveri e la sinodalità. «Il papa quando parla di periferie lo fa con un’ottica identitaria: capisco chi sono solo partendo dagli ultimi, dalle periferie – ha detto Zuppi – e mettere l’accento sulla sinodalità significa camminare insieme, pensare a una chiesa che coinvolga tutti, anche nei meccanismi di potere». Il presidente della Cei ha poi detto che il papa rappresenta molto anche per i non credenti, «perché è una una delle pochissime autorità morali, in un momento storico che vede così pochi riferimenti non corporativi». «Su tanti temi, non solo sul piano spirituale», ha aggiunto, citando le encicliche Laudato sì, sulla cura dell’ambiente, e Fratelli Tutti, sulla fraternità universale.

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Libro: “Il rumore delle bombe”

A 50 anni di distanza sono ancora tante le zone d’ombra, le ambiguità, le complicità e le ripercussioni nel presente che impediscono una piena assunzione nella memoria collettiva italiana di quella stagione nota come “Strategia della tensione”. Troppo pesante è l’assenza di giustizia su quei fatti delittuosi, a cui si collega un’incredibile catena di inquinamenti e depistaggi che allarga a dismisura l’area delle responsabilità.

“Il Rumore delle bombe” non è un saggio su quegli avvenimenti, né una narrazione giornalistica e nemmeno una raccolta di testimonianze, ma un dialogo che sviluppa tre voci e tre approcci diversi a partire da uno degli eventi più traumatici di quegli anni: la strage di Piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974.

Una forma inconsueta, una novità forse, una sfida per fare memoria onestamente, attraverso il ragionamento e il pensiero critico, l’analisi e la documentazione.

La voce autorevole e mai stanca del presidente dell’Associazione delle vittime della strage di Piazza della Loggia, Manlio Milani, che di quell’evento porta cicatrici e suture, si contrappunta a quelle del giornalista Claudio Geymonat e della psicologa Stefania Barzon, che nel distacco generazionale trovano la puntualità per raccontare cause ed effetti dei fatti di allora, con lo sguardo sempre proiettato all’oggi, al valore della Costituzione, dell’antifascismo e della democrazia, ai mai sopiti pericoli di involuzione autoritaria per l’Italia.

Il dolore, la rabbia. Soprattutto il bisogno di capire. Non giustificare ma comprendere. Allora inizia il complicato percorso dell’incontro con chi ha causato tanto dolore. Per sanare ferite, per ridare vita.

 Per lasciarci un Paese migliore.

Un dialogo rivolto alle nuove generazioni. Perché sappiano quanto male c’è stato, quanti silenzi non hanno aiutato la verità. Ma perché sappiano anche che dal male può nascere un fiore.

Il Rumore delle bombe, Volturnia edizioni, 2023.

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Le «crudeli aggressioni psicologiche» di Rupnik di fronte alle resistenze

Di Federica Tourn

Domani, 23 gennaio 2023

Diciasettesima puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.

Complice l’attenzione riservata alla morte di Benedetto XVI, nella Chiesa è calato un pesante silenzio su Marko Rupnik, il gesuita vicino a papa Francesco al centro di uno scandalo per le violenze commesse su diverse suore negli anni ’90 e per una scomunica latae sententiae, poi subito revocata dalla Santa Sede. Se il Vaticano non parla, lo fanno però le vittime, continuando ad aggravare con le loro testimonianze la posizione del famoso artista e di chi lo ha protetto.

«Padre Rupnik mi disse: se non decidi per la Comunità Loyola non decidi per il Cristo. Io ero giovane, lui era la mia guida spirituale e mi fece capire che se non entravo a far parte della sua congregazione non appartenevo più a Cristo». La storia di Klara (nome di fantasia), oggi 58 anni, adescata dal gesuita quando era ancora minorenne, è la cronaca di un plagio totale, che ha coinvolto ogni aspetto della sua esistenza. Rupnik ha fatto leva sull’inesperienza e l’insicurezza dei suoi sedici anni per indurla a frequentare i ritiri spirituali con lui e poi forzarla a entrare nella Comunità Loyola. Una volta in suo potere, l’ha costretta a fare sesso «per il suo bene» e ha cercato di iniziarla ai rapporti a tre affidandola a un’altra donna affinché la “istruisse” e la preparasse per l’incontro con il “guru”.

Quando ha incontrato Rupnik?

L’ho conosciuto nel 1980, quando avevo sedici anni. Rupnik era stato ricoverato per un’infezione nella Clinica per le Malattie Infettive a Lubiana, dove io stavo svolgendo il tirocinio obbligatorio dopo il primo anno della Scuola per infermiere. Eravamo da soli nella stanza e mentre rifacevo il letto la croce che portavo al collo mi è scivolata fuori dalla camicia: mi sono spaventata, eravamo ancora negli anni del comunismo in Jugoslavia e mostrare di essere cristiani poteva essere pericoloso. Lui per tranquillizzarmi mi ha detto che era un gesuita e che aveva uno studio artistico a Roma. Quando è stato dimesso, mi ha invitato a partecipare a un gruppo di giovani che lui stesso aveva creato e che si riuniva nella sede dei Gesuiti a Dravlje, a Lubiana.

E lei?

Sono andata. Un anno dopo, poco prima di Natale, ho partecipato anche a un ritiro spirituale nel Monastero di Stična, a quaranta chilometri dalla capitale. Alla fine della giornata, mentre mi salutava, Rupnik mi ha abbracciata e baciata, giustificando quel gesto con il mio bisogno di tenerezza. Mentre continuava ad abbracciarmi e baciarmi, mi ripeteva che lo faceva solo per il mio bene.

Che impressione le faceva Rupnik in quel periodo?

Ero confusa, colpita dalle attenzioni che mi rivolgeva. Mi ero da poco trasferita dal mio villaggio di campagna in città ed ero molto insicura e influenzabile, mentre lui era già considerato un leader. Inoltre ero molto religiosa; sin da bambina sognavo di andare in missione, anche se ancora non sapevo se come suora o come laica. Il mio desiderio era di mettermi al servizio degli altri e per questo avevo studiato da infermiera. Lui ha subito captato questa mia aspirazione e l’ha indirizzata verso la Comunità Loyola in formazione. Era molto insistente, e allo stesso tempo mi parlava sempre di una ragazza italiana, sua modella nell’atelier dove dipingeva, come esempio di femminilità ed erotismo, caratteristiche che diceva di vedere anche in me.

Era convinta di entrare nella Comunità Loyola?

Tutt’altro. Qualche mese prima di entrare in comunità, nel 1986, durante l’anno di “prova”, in cui si verificava se davvero avevamo la vocazione a prendere i voti, ho ricevuto una proposta di fidanzamento da parte di un ragazzo che conoscevo. L’ho detto alla sorella responsabile della comunità slovena e subito è arrivata la convocazione da parte di padre Rupnik ad andare a Roma per parlare con lui. In quell’incontro mi ha rimproverata duramente dicendomi che ero una stupida e che stavo sbagliando tutto. «Se non prendi la decisione di scegliere la Comunità Loyola significa che non scegli Cristo nella tua vita»: queste sue parole mi hanno spaventata perché ero una persona religiosa e non volevo certo allontanarmi da Dio. Anche al momento della scelta definitiva ho avuto dubbi: si era risvegliato in me il desiderio di partire come missionaria laica ma padre Rupnik tagliò corto dicendo che la mia decisione per la Comunità Loyola non poteva e non doveva essere cambiata. Avevo 23 anni quando sono entrata in comunità nel 1987 e ho preso i voti definitivi quattro anni dopo.

Quando sono cominciati i primi approcci sessuali?

L’anno prima di entrare nella Comunità Loyola, nel 1986, abitavo a Lubiana in un appartamento in subaffitto. In quel periodo, padre Rupnik viveva nella comunità dei Gesuiti a Gorizia e a volte passava a trovarmi quando era in città. In una di queste occasioni mi ha invitata a entrare con lui nel bagno, dove ha cominciato a masturbarsi, davanti a me, sopra il lavandino; poi mi ha preso la mano in modo che continuassi io, mentre con l’altra mi spingeva la testa verso il basso. Mi diceva che lo faceva solo per il mio bene: «ne hai bisogno perché non hai ricevuto abbastanza amore e attenzione da tuo padre», diceva, e intanto mi raccomandava di non parlarne con nessuno.

Ci sono stati altri episodi?

Molti altri. Quando ha avuto la certezza che sarei entrata in comunità, ha cominciato a sfruttarmi sessualmente a suo piacimento. Durante il primo anno a Mengeš, padre Rupnik veniva per la guida spirituale e le confessioni; in quelle occasioni più volte mi disse che aveva una relazione sessuale anche con altre sorelle, menzionando ripetutamente il sesso a tre e chiedendomi se preferivo stare con una sorella e lui, oppure se desideravo essere sola con due uomini. Mi descriveva il nostro futuro rapporto a tre con ogni dovizia di particolari. Mi ricordo una volta che, dopo aver accompagnato due sorelle da Mengeš a Gorizia, si è fermato nel garage e ha cominciato a palpeggiarmi per poi masturbare sé stesso e me. Lo stesso anno mi ha scelta come aiuto nella direzione degli esercizi spirituali nel Monastero di Stična, soltanto per avermi più giorni a disposizione per fare sesso. Era il mio direttore spirituale e tutte in comunità mi ripetevano che dovevo essere umile e sottomessa: mi sentivo in trappola e non potevo parlarne con nessuno.

Durante la pasqua del 1988, mentre ero a Roma per studiare teologia, sono stata mandata da padre Rupnik a San Marco in Lamis, in Puglia, a casa di una donna che aveva frequentato per un periodo la Comunità Loyola. Rupnik mi aveva parlato a lungo di come lei lo ispirasse artisticamente quando, nel suo atelier si massaggiava i seni e si accarezzava davanti a lui. Ho capito ben presto che ero stata mandata a casa sua con lo scopo preciso di farmi istruire sul sesso a tre: lei si toccava e “giocava” con me a letto, parlandomi di come sarebbe stato con padre Rupnik e di come avremmo bevuto il suo sperma da un calice a cena. Io ero imbarazzatissima e totalmente bloccata, tanto che una sera lei ha chiamato Rupnik al telefono dicendogli che con me non c’era nulla da fare.

A quel punto che cosa è successo?

Padre Rupnik ha cambiato totalmente atteggiamento nei miei confronti e ha cominciato a trattarmi molto male: sono stata sfruttata, ignorata ed emarginata in comunità, e anche l’atteggiamento di Ivanka Hosta è cambiato radicalmente. Sono diventata una sorella di terza classe, considerata incapace di osservare l’obbedienza, di pregare e di essere umile: era il loro modo per dirmi che potevo solo servire le sorelle, guadagnare dei soldi, ma non avevo il diritto di parola. Sono stata umiliata, rimproverata e punita pubblicamente. Non sono riuscita a dire la causa della mia sofferenza e della mia confusione interiore, mi percepivo soltanto come un relitto emotivo ormai inutile.

Quando è riuscita a uscire da questa situazione?

Dopo anni di vessazioni da parte della superiora e delle sue “protette”, sono stata trasferita a Gerusalemme in una piccola sede della comunità e tre anni dopo l’ho lasciata definitivamente. Avevo 35 anni. 

Ha mai più parlato con Rupnik?

Una volta, poco prima di andarmene dall’Italia, l’ho affrontato durante gli esercizi spirituali e gli ho detto che mi aveva ingannata sin dal principio e che avevo capito il suo sistema: usava tutti i suoi doni di comprensione delle fragilità di ognuna di noi a suo vantaggio per avere prestazioni sessuali, usando una logica distorta dell’amore. Al contempo, quando trovava “resistenze”, come è successo a me, iniziava a compiere crudeli aggressioni psicologiche, emotive e spirituali che, insieme all’abuso fisico, distruggevano le persone.

E lui?

Ha negato tutto: è rimasto impassibile e mi ha risposto che non sapeva di che cosa stessi parlando.