A 50 anni di distanza sono ancora tante le zone d’ombra, le ambiguità, le complicità e le ripercussioni nel presente che impediscono una piena assunzione nella memoria collettiva italiana di quella stagione nota come “Strategia… Altro
Abusi, mosaici e milioni, ecco la società segreta di Rupnik
Di Federica Tourn e Marija Zidar, (Lubiana)
Domani, 14 aprile 2023
Si chiama Rossoroblu la società fondata nel 2007 da Marko Rupnik «per la creazione e posa in opera, in laboratorio e sul luogo, di mosaici, vetrate, affreschi, murales, sculture, pitture in tutte le varie tecniche ed arti». La srl, con sede in via Paolina 25, dove si trova il Centro Aletti, appartiene per il 90 per cento a Rupnik e per il 10 a Manuela Viezzoli, una ex sorella della comunità Loyola che ora fa parte del “cerchio magico” delle sue fedelissime, le laiche consacrate della Comunità della divino-umanità. In almeno due casi abbiamo la prova che è stata questa società a trattare le commissioni dei mosaici: in occasione dell’imponente lavoro al Santuario di padre Pio di Pietrelcina a San Giovanni Rotondo e per i lavori di decorazione nella chiesa del cimitero di Lubiana. Il famoso artista, il gesuita accusato di abusi nei confronti di diverse suore, non poteva scegliere un nome più evocativo per la srl che gestisce le commissioni e i pagamenti dei suoi mosaici. Rosso, oro e blu sono i suoi colori: il rosso a indicare la divinità, il blu l’umano e il giallo la santità secondo la tradizione cristiana del primo millennio, come ha più volte spiegato lo stesso Rupnik. Sono il suo marchio di fabbrica, come i grandi occhi neri delle figure sacre, ritratte con le pupille dilatate a occupare tutta l’orbita.
Una società di cui nemmeno il superiore di Rupnik, padre Johan Verschueren, delegato del Preposito generale della Compagnia di Gesù per le Case internazionali dei gesuiti a Roma, era a conoscenza: «è una notizia completamente nuova per me e anche abbastanza scioccante», ha detto, interpellato da Domani. Possedere una società non è ammissibile per un gesuita, «perché è contro il voto di povertà» ha aggiunto padre Verschueren. Chi allora ha permesso a Rupnik di gestire direttamente i profitti derivati dalle sue opere?
Più si diffondono le testimonianze delle vittime (un’altra religiosa, suor Samuelle, qualche giorno fa ha raccontato al giornale francese La vie le molestie subite da Rupnik al Centro Aletti), più quei rossi, gialli e blu accesi di Rupnik sembrano incombere su chi li osserva e sollevano non pochi dubbi sul futuro delle opere. Si può distinguere il lavoro dell’artista dalle responsabilità del sacerdote? Al momento a Rupnik è vietato accettare nuove commissioni di lavori artistici, ma l’interdizione si estende anche all’atelier artistico del Centro Aletti di cui lui è il fondatore e l’ispiratore? Domande imbarazzanti, perché coinvolgono non solo la reputazione di Rupnik ma il futuro stesso del Centro Aletti e di non poche istituzioni religiose e chiese in tutto il mondo. Interrogativi spinosi che qualcuno ha cominciato a porsi: il 27 marzo il vescovo di Tarbes e Lourdes Jean-Marc Micas e il rettore del Santuario di Lourdes Michel Daubanes hanno affermato in un comunicato ufficiale che «i mosaici di padre Rupnik che decorano la Basilica del Santuario di Lourdes potrebbero essere rimossi a causa della sofferenza delle vittime che vengono al Santuario in cerca di conforto». Rupnik era stato anche nominato responsabile della decorazione interna ed esterna della nuova chiesa di Saint-Joseph-le Bienveillant, la cui costruzione è iniziata diversi mesi fa nella parrocchia di Montigny-Voisins, non lontano da Parigi. L’8 dicembre scorso, però, venuto a conoscenza delle accuse al gesuita, il vescovo di Versailles Luc Crepy, d’accordo con don Pierre-Hervé Grosjean, parroco di Montigny-Voisins le Bretonneux, ha deciso di interrompere ogni collaborazione. Segnali importanti che arrivano dalla Francia, un paese sempre un passo avanti sul tema degli abusi clericali e del rispetto delle vittime, e che presto potrebbero fare scuola anche altrove.
In attesa del responso della Compagnia di Gesù, che a breve dovrebbe pronunciarsi sulla sorte del sacerdote e che ha già detto di ritenere attendibili le denunce raccolte nei mesi scorsi dal team referente incaricato di ascoltare le vittime, è quindi interessante approfondire come funziona “l’industria” delle opere di Rupnik. Oltre 220 mosaici, affreschi e vetrate in chiese e istituzioni religiose – questo il numero dei lavori eseguiti dal Centro Aletti dal 2000 al 2022 – a cui bisogna aggiungere i quadri, le vetrate e le opere funerarie di proprietà di privati. Una produzione enorme e diffusa in tutto il mondo, frutto del pensiero di Rupnik e dell’opera dell’Atelier del Centro, che si propone «come via per aiutare un nuovo incontro tra l’arte e la fede, tra le diverse Chiese e gli artisti», come si legge sul sito del Centro. Un «permanente cantiere comunitario», che si occupa quasi esclusivamente di arte liturgica e di cui fanno parte artisti e architetti, «in modo da poter gestire tutte le fasi del lavoro, dalla progettazione dello spazio ecclesiale fino alla realizzazione dell’arredo liturgico e delle opere d’arte».
Senza entrare nel merito del valore artistico di queste opere, siamo certamente di fronte a un patrimonio considerevole dal punto di vista economico. In particolare i mosaici, che hanno reso famoso Marko Rupnik a livello internazionale, hanno prodotto ricavi stimati in decine di milioni di euro. E qui dunque sorge la domanda: quanto costa un mosaico realizzato da Rupnik e dalla sua corte di artisti?
Reperire i dati è tutt’altro che semplice. Il Centro Aletti non ha risposto alle domande di Domani e sul sito non c’è traccia di cifre, né si trova di più sui siti delle istituzioni che hanno commissionato le opere, come se fosse di cattivo gusto parlare di denaro in mezzo a tanta professione di fede. Per quanto riguarda l’Italia, abbiamo rintracciato il preventivo per il mosaico di 250 metri quadri realizzato nel 2017 sulla facciata esterna del Santuario della Madonna dei Fiori di Bra (Cuneo): ammontava a 250mila euro (coperti interamente dai fedeli), ma la cifra è lievitata in corso d’opera. Il lavoro al Santuario di Padre Pio, invece, è costato ai frati minori cappuccini più di sei milioni di euro già dieci anni fa (il cantiere è stato aperto dal 2009 al 2013), secondo quanto riferisce una fonte interna al Santuario. Si tratta di un percorso iconografico di oltre 2400 metri quadri, pensato per arricchire la chiesa costruita da Renzo Piano e che comprende il mosaico della rampa di accesso alla Chiesa inferiore, gli arredi della cripta, il crocefisso, l’altare esterno e infine la decorazione della Cappella del Santissimo Sacramento. Possiamo quindi soltanto immaginare quale cifra da capogiro richieda il progetto, tuttora in corso, al Santuario nazionale dell’Aparecida, nello stato di San Paolo in Brasile, la più grande chiesa del continente americano e la seconda al mondo dopo San Pietro in Vaticano. Qui Rupnik e la sua équipe hanno già terminato di decorare l’ingresso nord della basilica, 2300 metri quadri di mosaico con scene dall’Antico Testamento. Restano ora le altre tre facciate da ultimare. Interpellati da Domani sui costi dell’opera e sulle previsioni per il prossimo futuro (chi completerà il lavoro? Sarà appaltato ad altri?), i responsabili del Santuario brasiliano hanno preferito non rilasciare dichiarazioni.
Parlare di Rupnik non è facile nemmeno quando si tratta del suo paese natale. Secondo i dati pubblici forniti dalle stesse parrocchie e dai media sloveni, già vent’anni fa il prezzo dei mosaici di Rupnik oscillava tra i mille e i tremila euro al metro quadro, e il prezzo è aumentato negli anni successivi di pari passo con la notorietà di Rupnik. Le dimensioni delle opere variano dai 50 ai 200 metri quadri, quindi il ricavo totale dei mosaici sloveni arriverebbe a circa 6 milioni di euro. In Slovenia, dove l’atelier artistico del Centro Aletti, secondo i dati ufficiali, ha realizzato 38 opere, i parroci delle chiese che sfoggiano i mosaici sono quasi tutti molto reticenti a rivelare l’esito delle trattative. A Semič, piccolo comune vicino al confine con la Croazia, Rupnik ha realizzato i mosaici per la cappella di Santa Teresa del Bambin Gesù nel 2019: intervistato da Domani sull’opera, il parroco Luka Zidanšek parla addirittura di «accordo segreto» e si rifiuta di rivelare quanto è stato pagato il lavoro. Nella chiesa della Santa Vergine di Polje, a Lubiana, dove i mosaici non solo ricoprono le pareti del battistero e della cappella della Santa Vergine ma adornano tutta la facciata della chiesa, le cose non sono andate meglio: Janez Bernot, il parroco che ha commissionato il lavoro (realizzato fra il 2017 e il 2020), accoglie con freddezza la domanda e dice che «non ricorda» e che comunque «si è trattato di un accordo commerciale riservato». Per quanto riguarda gli edifici civili, i mosaici di Rupnik svettano per svariati metri di altezza all’interno del complesso residenziale “Vila urbana”, nel centro storico della capitale, a pochi passi dalla cattedrale. Qui, invece del Cristo, si vede il drago, simbolo della città di Lubiana, ma il tratto dell’artista è inconfondibile. Il valore dell’opera non è pervenuto.
Del costo dei lavori realizzati prima del 2012 abbiamo qualche notizia in più grazie alla tesi di laurea in ingegneria civile di Arnold Oton Ciraj su “Aspetti di spesa della costruzione di nuove strutture sacrali”. Nel descrivere la metodologia e i risultati, l’autore ammette che è stato arduo ottenere dati e che le arcidiocesi di Lubiana e Maribor, le due più grandi diocesi slovene, lo avevano addirittura avvertito in anticipo che sarebbe stato molto difficile ottenere informazioni sui costi di costruzione. «La maggior parte non ha nemmeno risposto – scrive Ciraj nella tesi – In molti casi le parrocchie, per vari motivi, non conservano questi dati e ci si chiede se siano mai esistiti su carta». Quando esistono, sono spesso lacunosi o approssimativi: «spesso i lavori venivano pagati in contanti e non se ne fa menzione nei registri finanziari», sottolinea l’ingegnere.
Dei quaranta committenti interpellati, quasi nessuno ha voluto dichiarare l’esito degli accordi finanziari. Ciraj è riuscito a ottenere informazioni sul prezzo delle opere di Rupnik solo da tre parrocchie slovene, dove sono presenti i mosaici più imponenti: San Marco Evangelista a Capodistria, il complesso cimiteriale di Santa Croce a Lubiana e la chiesa di Sant’Elena a Pertoče, vicino al confine con l’Ungheria. Secondo i media cattolici sloveni dell’epoca, la chiesa di Pertoče ha pagato 250mila euro nel 2009 per un mosaico di 92 metri quadri che occupa tutto il presbiterio, mentre la parrocchia di San Marco a Capodistria ha corrisposto circa 100mila euro nel 2003 per un mosaico di 115 metri quadri, a cui si aggiungono i 22mila euro donati dalla società per azioni del Porto di Capodistria per un nuovo mosaico di 40 metri. Per gli 80metri quadri del mosaico nella chiesa di Tutti i Santi nel cimitero di Lubiana, invece, la stima del costo, calcolata sul prezzo al metro quadro, arriva facilmente ai 150mila euro.
Inoltre, si apprende dal sito della parrocchia di Semič, a 70 chilometri da Lubiana, che nel 2019 aveva calcolato di spendere 50mila euro per un mosaico di 70 metri quadri, senza però aver ancora ricevuto un attendibile preventivo di spesa. Alcune parrocchie, a quanto pare, non hanno infatti avuto dal Centro Aletti una esatta stima dei costi, come nel caso della piccola parrocchia di Vrhpolje, a trenta chilometri dal confine italiano, dove i lavori per il mosaico di 180 metri quadri (all’epoca il più grande mosaico di Rupnik in Slovenia), iniziati nel 2013, sono stati terminati anni dopo per la difficoltà nel reperire i fondi necessari. Un articolo del 2016, uscito sul periodico Novi Glas, conferma le difficoltà incontrate dal sacerdote responsabile della parrocchia, don Janez Kržišnik: «l’enorme quantità di lavoro – spiega il prete – ha richiesto costi enormi che non possono nemmeno essere stimati con precisione».
I mosaici di Rupnik sono infatti finanziati principalmente con i doni dei parrocchiani e anche per questo motivo non si capisce tanta reticenza nel rendere note le cifre. Di fronte a questa mancanza di trasparenza, è logico chiedersi dove sono finiti i soldi. Chi ha incassato il denaro? Chi ci guadagna? L’attuale parroco di San Marco, don Ervin Mozetič, non sa dire a chi sia stata corrisposta l’intera cifra spesa nel 2003 (più di 122mila euro), mentre il sacerdote incaricato all’epoca, Jožef Koren, ricorda soltanto che si trattava di un bonifico bancario su un conto fornitogli da Rupnik. Lo stesso succede al cimitero di Lubiana: il sacerdote responsabile, Peter Možina, non era presente nel 2009, quando sono stati realizzati i lavori. Il parroco precedente, Tomaž Prelovšek, raggiunto al telefono da Domani, invece non ha dubbi: il pagamento è stato effettuato con un versamento direttamente a quella che gli viene presentata come «la società del Centro Aletti», la Rossoroblu srl.
Questa società in realtà è di Rupnik, perché il gesuita la possiede al 90 per cento. Dalla visura camerale si evince infatti che è stata fondata nel settembre 2007 da Rupnik e da Viezzoli, con un capitale sociale di partenza di diecimila euro; alla fine del 2022 risulta avere 15 dipendenti, mentre il bilancio dell’anno precedente registra un fatturato di 1.176.500 euro e un utile di 119.607 euro. L’andamento societario è in crescita (più 32,50% nel 2019) e l’utile negli ultimi anni è sempre aumentato, passando dai 41.490 euro del 2017 fino ai 95.481 euro del 2020. Amministratrice unica e rappresentante dell’impresa è Manuela Viezzoli e i soci risultano essere sempre loro due, Viezzoli e Rupnik. Al 31 dicembre 2021, nell’attivo dello stato patrimoniale, la società presenta, tra l’altro, 593.713 euro di crediti, quasi tutti crediti commerciali. Questo credito è aumentato nell’esercizio 2021 di 117.015 euro, che corrisponde quasi esattamente all’utile d’esercizio della società (119.607 euro). La società, insomma, va a gonfie vele.
Il bilancio appare comunque scarno rispetto al peso delle committenze evidenziate: quanto denaro è poi passato semplicemente «di mano in mano», come testimonia Ciraj nella sua tesi? Denaro che, lo ricordiamo, arrivava soprattutto dalle collette dei fedeli. I fondi della società Rossoroblu potevano essere usati per finanziare qualsiasi attività: per esempio – ma è solo un’ipotesi – la “Chiesa dell’uomo nuovo”, la cui costruzione a Roma ovest, secondo una nostra fonte, era già stata annunciata al clero dal vicario generale della capitale, il cardinale Angelo De Donatis.
Da notare anche che, nonostante le grandi entrate e i profitti dei mosaici, il Centro Aletti ha ben due fondazioni che chiedono contributi per finanziarne le attività, la Fondazione Agape a Roma e la Fondazione Centro Aletti, fondata in Slovenia nel 2002 da Marina Štremfelj, un’altra ex sorella della Comunità Loyola. Secondo il sito web del Centro Aletti, la fondazione slovena è stata creata con lo scopo specifico di «sostenere e incoraggiare, anche finanziariamente» le attività dell’Aletti di Roma. Non è chiaro come pensasse di farlo, visto che i bilanci mostrano entrate basse e addirittura numeri in rosso da alcuni anni.
Rupnik, se pur convocato ripetutamente, si è finora rifiutato di presentarsi al suo superiore, padre Verschueren. Il suo caso è un dossier sempre più scottante, visti i tanti elementi problematici che lo caratterizzano: gli abusi sulle ex sorelle della Comunità Loyola, le testimonianze delle vittime rese al team referente della Compagnia, la scomunica per aver assolto in confessione la donna con cui aveva avuto un rapporto sessuale, il ruolo, ancora tutto da investigare, avuto dal Centro Aletti nel coprire e avallare la condotta a dir poco spregiudicata del suo fondatore. A questo oggi si aggiungono gli ingenti guadagni realizzati negli ultimi vent’anni con i mosaci.
Davvero niente male per un sacerdote che ha fatto voto di castità, povertà e obbedienza.
Foto di Lawrence OP
Il premio Mimmo Cándito a Federica Tourn
16 gennaio 2022
Lunedì sera 16 gennaio sera presso il Circolo dei Lettori di Torino si è tenuta la premiazione della Seconda edizione del Premio Mimmo Cándito.
Il Premio è destinato a quel giornalismo d’inchiesta e di analisi che si muove nel campo della politica e della società internazionale. L’idea di dare vita al concorso è nata nel 2018 a nove mesi dalla scomparsa del grande reporter di guerra, per molti anni inviato de “La Stampa” in qualsiasi scenario bellico nel mondo. Continua a leggere “Il premio Mimmo Cándito a Federica Tourn”
I baci nel nome dell’eucarestia e il sesso a tre per imitare la Trinità, parla la suora vittima di Rupnik
Di Federica Tourn
Domani, 18 dicembre 2022
Tredicesima puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.
«La prima volta mi ha baciato sulla bocca dicendomi che così baciava l’altare dove celebrava l’eucaristia, perché con me poteva vivere il sesso come espressione dell’amore di Dio». Questo è l’inizio della particolareggiata testimonianza della violenza sessuale, psicologica e spirituale che Anna (nome di fantasia), una ex religiosa italiana della Comunità Loyola, ha subito per nove anni da parte del gesuita Marko Rupnik, non soltanto in Slovenia ma anche in Italia. Rupnik, teologo e artista noto in tutto il mondo, è oggi al centro di uno scandalo per l’accusa di abusi nei confronti di alcune suore, come abbiamo raccontato nei giorni scorsi su Domani. Anna, arrivata quasi al suicidio a causa delle sofferenze causate dal delirio di onnipotenza e dall’ossessione sessuale del gesuita, ha denunciato più volte il suo abusatore nel corso degli anni ma la Chiesa ha sempre coperto tutto. Continua a leggere “I baci nel nome dell’eucarestia e il sesso a tre per imitare la Trinità, parla la suora vittima di Rupnik”
Pedofilia nella Chiesa, il caso Spotlight continua a Roma vent’anni dopo
Di Federica Tourn
Domani, 11 dicembre 2022
Dodicesima puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.
È una limpida mattina romana di metà febbraio quando monsignor John Anthony Abruzzese, originario di Boston e canonico della Basilica papale di Santa Maria Maggiore all’Esquilino, viene convocato nell’ufficio del Commissario straordinario della Basilica, monsignor Rolandas Makrickas. Ad attenderlo trova l’arciprete della Basilica, il cardinale Stanisław Ryłko, e il suo vicario, l’arcivescovo Piero Marini, che gli consegnano una lettera da parte del Sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato della Santa Sede Edgar Peña Parra. Le notizie non sono buone: Abruzzese è appena stato licenziato sui due piedi e deve tornarsene a casa, in Massachusetts. Il motivo non viene esplicitato, ma la lettera lascia intendere che la causa sia da ricercare nel fatto che Abruzzese, all’interno della basilica vaticana, divide l’alloggio con un ragazzo appena maggiorenne. Questo ragazzo, chiamiamolo Roberto, non è però un ventenne qualunque ma ha alle spalle una storia agghiacciante di pedofilia: è stato infatti abusato per nove anni da un prete e soltanto da poco si è deciso a denunciare. Continua a leggere “Pedofilia nella Chiesa, il caso Spotlight continua a Roma vent’anni dopo”
L’8 per mille ai preti pedofili, i soldi dei fedeli usati per aiutare il sacerdote accusato di molestie
Di Federica Tourn
Domani, 14 novembre 2022
Undicesima puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.
I vescovi italiani usano i fondi statali dell’8 per mille anche per tutelare i sacerdoti accusati di pedofilia, come se le denunce delle vittime e i processi che ne conseguono fossero una persecuzione contro la Chiesa cattolica. E questi pedofili protetti sono numerosi, più di quelli rilevati dalla giustizia dello stato. È l’imbarazzante realtà che sta emergendo dal processo per violenza sessuale su minori (articoli 81 e 609 bis del codice penale) a carico di don Giuseppe Rugolo, in corso al tribunale di Enna. Continua a leggere “L’8 per mille ai preti pedofili, i soldi dei fedeli usati per aiutare il sacerdote accusato di molestie”
La suora che ha denunciato il sacerdote che la stuprava
Di Federica Tourn
Domani, 19 settembre 2022
Ottava puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.
«Sono stata violentata per la prima volta a 24 anni da un sacerdote di quasi vent’anni più vecchio di me. Non soltanto era il mio superiore ma era anche il responsabile della congregazione. Non avevo mai sentito parlare di preti che si approfittano delle suore: per me, semplice novizia, fu uno choc».
Quando nel 2003 entra nella Famiglia Spirituale l’Opera, una comunità di vita consacrata fondata dalla belga Julia Verhaeghe e riconosciuta da Giovanni Paolo II nel 2001, Doris Wagner è una ragazza tedesca di 19 anni, piena di entusiasmo all’idea di dedicare la propria vita a Dio. Al Collegium Paulinum di Roma, sede della congregazione, sacerdoti e suore vivono insieme sotto lo stesso tetto e, anche se hanno mansioni diverse, si incontrano per la messa o durante i pasti. La realtà della vita comunitaria si rivela subito difficile: l’Opera le chiede di rinunciare alla famiglia, agli amici, le proibisce anche la lettura «per farla crescere in umiltà». Doris non viene messa al corrente di nulla, non sa nemmeno quando prenderà i voti perpetui. «Ci trasferivano da un paese all’altro senza preavviso e ci spostavano addirittura di stanza senza una spiegazione», conferma Wagner. Stringere amicizie è impossibile anche fra consorelle: «spinta dalla devozione, ci rassegnavamo a vivere in solitudine – spiega – la nostra vita era completamente nelle mani della comunità». Continua a leggere “La suora che ha denunciato il sacerdote che la stuprava”
È nei seminari che la chiesa deve fare i conti con il suo lato oscuro
Di Federica Tourn
Domani, 7 ottobre 2022
Sesta puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.
Un ragazzino di tredici anni scappa dalla finestra del Seminario vescovile di Savona, dove era entrato tre anni prima pieno di entusiasmo all’idea di diventare sacerdote. Siamo nel 1968, il grande istituto dove studiano i candidati al presbiterato accoglie ragazzi che vanno dalla prima media alla specializzazione in filosofia e teologia; il rettore è don Andrea Giusto, un prete gioviale e apprezzato dagli studenti. Eppure, qualcosa non va. Tornato a casa, Alessandro Nicolick – questo il nome del bambino – è taciturno e nervoso ma non vuole dare spiegazioni. Una volta adolescente comincia a far uso di eroina, diventa tossicodipendente e finisce in carcere, dove si ammala di Aids. «In ospedale, poco prima di morire, mi ha raccontato di essere stato abusato quando era in Seminario da un prefetto di camera, un seminarista più anziano che assisteva i piccoli, Pietro Pinetto», denuncia il fratello Roberto.
Don Pinetto, morto l’anno scorso di Covid, nel 1972 era stato nominato vice rettore del Seminario vescovile e nel 1981 ne era diventato anche direttore spirituale. Nel 2013, quando era parroco della chiesa di San Michele a Celle Ligure (Savona), viene però denunciato da un ex altro seminarista, che dichiara di essere stato abusato da lui negli anni ’70, ma il procedimento è archiviato perché il fatto è ormai prescritto. Il sacerdote, però, querela per diffamazione e calunnia la presunta vittima, due giornalisti locali e Francesco Zanardi, presidente della Rete l’Abuso.
A quel punto, il colpo di scena: viene riaperta l’indagine e spuntano altre testimonianze, «comprese le segnalazioni fatte all’allora vescovo di Savona Franco Sibilla, che non intervenne, e che aprono il vaso di Pandora degli abusi sui minori nella chiesa savonese, più preoccupata di proteggere i responsabili che di evitare nuove vittime», commenta oggi Zanardi. La gip Fiorenza Giorgi, infatti, nelle motivazioni del decreto di archiviazione del procedimento per calunnia a don Pinetto pubblicate dal Secolo XIX, evidenzia che le indagini hanno fatto emergere elementi di prova che «confermano gli abusi» nel Seminario e rileva che «la curia si è preoccupata di salvare le apparenze invece di pensare a quei ragazzi che, tra l’altro, rappresentavano il futuro della chiesa stessa». Continua a leggere “È nei seminari che la chiesa deve fare i conti con il suo lato oscuro”
Il fuoco pedofilo sotto la cenere dei focolari di Chiara Lubich
Di Federica Tourn
Domani, 25 luglio 2022
Quinta puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.
È il 3 gennaio 2021 e la Rai programma in prima serata la fiction L’amore vince tutto sulla figura di Chiara Lubich, la maestra di Trento che sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale decide di consacrarsi all’amore per Dio fondando una comunità ecclesiale di laici cattolici, il movimento dei Focolari. Nessuna ombra, neanche una nota dissonante. Eppure, negli stessi giorni, la società Gcps Consulting, incaricata dai vertici del movimento, sta cominciando a investigare sulle denunce di abuso sessuale a carico di Jean-Michel Merlin, un membro con ruoli apicali in Francia e che, con 37 vittime accertate, verrà definito un «abusatore seriale di minori» che ha goduto della copertura del movimento.
Continua a leggere “Il fuoco pedofilo sotto la cenere dei focolari di Chiara Lubich”
Enna, storia del prete pedofilo tenuto coperto da due vescovi
Di Federica Tourn
Domani, 3 luglio 2022
Quarta puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.
A Enna è già tutto pronto per la cerimonia solenne di insediamento nella chiesa di San Cataldo, ma qualcosa manda a monte la festa per il nuovo parroco, don Giuseppe Rugolo: la presa di possesso avviene in sordina per decisione del vescovo e don Giuseppe per il dispiacere finisce addirittura in ospedale. Siamo a novembre 2018, e quello che sembra soltanto un intoppo nella brillante carriera di un prete molto popolare, leader indiscusso di un gruppo giovanile che conta più di duecento ragazzi, è invece il preludio di uno scandalo che culminerà più di due anni dopo con l’accusa di violenza sessuale su tre minori, secondo gli articoli 81 e 609 del codice penale. A denunciare è un giovane, Antonio Messina, all’epoca dei primi abusi appena sedicenne; durante l’inchiesta vengono individuati altri due minorenni vittime del prete. La gip Luisa Maria Bruno al momento dell’arresto dispone i domiciliari per il rischio della reiterazione del reato e la tendenza dell’indagato «a cedere alle pulsioni sessuali in maniera incondizionata».
Continua a leggere “Enna, storia del prete pedofilo tenuto coperto da due vescovi”
Il figlio è mio e lo istruisco io (lontano dalle scuole e a destra)
Di Federica Tourn
FQ Millennium, aprile 2022
Immagina di tornare bambino e di vivere in un mondo senza lunedì. Un mondo dove non suona la sveglia né la campanella, dove ti alzi quando vuoi e non esistono interrogazioni, compiti o note sul registro né banchi e tantomeno insegnanti in cattedra; un mondo dove giochi quanto vuoi, impari quello che ti piace e a settembre, quando tutti gli altri ritornano in classe, tu invece fai una grande festa di “Non rientro a scuola”. No, non è il paese dei balocchi di Pinocchio ma la realtà di ogni giorno per tanti bambini e ragazzi che, invece di andare a scuola, studiano a casa.
Oltreoceano l’homeschooling è un’opzione considerata ormai quasi mainstream: negli Stati Uniti nel 2020-21 si sono registrati 3,7 milioni di studenti in istruzione parentale, 1,2 milioni in più rispetto alla primavera del 2019 (dati del National Home Education Research Institute) ed è in forte crescita anche in paesi come l’Australia, il Giappone o la Gran Bretagna. In Europa, disertare le aule è ancora vietato in alcuni paesi, come la Germania, la Svezia e (di recente) la Francia, ma da noi sta prendendo sempre più piede. In Italia negli ultimi due anni il numero è addirittura triplicato: secondo i dati del ministero dell’Istruzione, si è passati infatti dai 5.126 ragazzi che studiano fra le mura domestiche del 2018-2019 ai 15.361 del 2020-2021. Un balzo dovuto alla pandemia, che ha portato molte famiglie a ritirare i figli da scuola per paura del contagio e per evitare i disagi del distanziamento e della mascherina, ma che una convinta minoranza portava avanti già da tempo. I motivi possono essere diversi, ma alla base di questa scelta si trova sempre il desiderio di impartire un’educazione conforme ai princìpi della famiglia e una generale sfiducia nell’istituzione scolastica, considerata ottusa e repressiva: l’istruzione domestica, al contrario, permetterebbe ai bambini di crescere senza condizionamenti, liberi di assecondare la propria creatività.
Nel nostro paese, non esiste formalmente l’obbligo ad andare a scuola: ad essere obbligatoria è l’istruzione, come sottolinea l’articolo 30 della Costituzione, e sono i genitori che decidono se demandare il compito a un’istituzione pubblica o privata o se occuparsene in prima persona. In questo caso, secondo l’art. 111 del Testo Unico in materia di istruzione per le scuole di ogni ordine e grado del 1994, devono soltanto dimostrare di averne la capacità tecnica ed economica e comunicarlo alle autorità competenti. Basta insomma notificare la decisione al dirigente scolastico del territorio di residenza e fornire la documentazione del programma svolto a casa alla scuola di competenza, che “vigila” sull’effettiva preparazione del minore.
Continua a leggere “Il figlio è mio e lo istruisco io (lontano dalle scuole e a destra)”Covid: le scelte criminali nel Brasile delle disuguaglianze sociali
Di Federica Tourn
Riforma, 16 giugno 2021
«È un genocidio», gridano esasperati i brasiliani, che nei giorni scorsi si sono riversati a migliaia nelle strade della capitale e delle principali città del paese sudamericano per chiedere più vaccini e protestare contro la politica “attendista” del presidente Jair Bolsonaro, che dall’inizio della pandemia ha portato avanti una serie di prese di posizione atte a sminuire la portata della crisi in corso, ignorando le richieste di aiuto della popolazione.
Nessuna indicazione chiara e nessun piano condiviso sono infatti arrivati dal Ministero della Salute, mentre tempo e risorse sono stati sprecati nel difendere farmaci inefficaci contro la malattia. Per Bolsonaro, prima si trattava di una “febbricola”, poi di un virus che era inutile arginare con i lockdown, le mascherine e il distanziamento sociale, visto che si poteva agevolmente stroncare con la clorochina, un antimalarico, o con un vermifugo, l’ivermectina, un medicinale da banco facilmente reperibile in farmacia.
Caporalato, il primo processo ai piedi del Monviso
Di Federica Tourn
Foto di Federico Tisa
Pubblicato su La Via Libera
Migranti che fanno il doppio lavoro, di giorno nei campi e di notte nei capannoni, senza rispettare le ore di riposo obbligatorie, con un “caporale nero” che li gestisce per conto di aziende che evadono il fisco e sottopagano i lavoratori. Uno scacchiere in cui ognuno ha il suo posto e si muove con regole ben definite, quello che sta emergendo dal processo istruito davanti alla Corte di Assise di Cuneo, in cui Moumouni Tassembedo, detto Momo, originario del Burkina Faso, e due famiglie di imprenditori del Saluzzese, i Depetris di Barge e i Gastaldi di Lagnasco, sono accusati di sfruttamento della manodopera agricola. Secondo gli inquirenti, avrebbero orchestrato un sistema per reclutare i braccianti di origine africana, lucrando sulla loro condizione di fragilità economica e sociale. Uno scenario ricostruito con dovizia di particolari dall’indagine del nucleo dei carabinieri dell’Ispettorato del Lavoro di Cuneo e che parla espressamente di caporalato secondo la legge 199 del 2016.
È la prima volta per il distretto della frutta ai piedi del Monviso, un comparto produttivo che conta ottomila aziende e si regge sull’apporto dei migranti subsahariani che ogni primavera arrivano dal Sud Italia per la raccolta. Secondo la Coldiretti, su una media di 13mila stagionali, 11mila sono stranieri; il 2020 è stato però un anno eccezionale per le restrizioni causate dalla pandemia, che ha abbassato del 65% il numero dei lavoratori provenienti dai paesi extraeuropei (dati Istat). Tra quelli intercettati dalla Caritas, all’Infopoint di “Saluzzo Migrante” la scorsa stagione sono state registrate 662 persone (rispetto alle 904 dell’anno precedente), provenienti da 25 paesi e in particolare da Mali (35%), Senegal (17%), Gambia (11%) e Costa d’Avorio (8%). Continua a leggere “Caporalato, il primo processo ai piedi del Monviso”
Caporalato al Nord. La zona grigia
Di Federica Tourn
Foto di Federico Tisa
Jesus, marzo 2021
È da poco passata la mezzanotte e tre ragazzi in bici filano silenziosi sul bordo delle strade buie. L’aria è fredda da queste parti, penetra nei vestiti e arriva fino alle ossa, soprattutto se sei stanco perché il lavoro non finisce mai. Si fermano davanti alla stazione, dove li attende un furgone col motore acceso e altre persone a bordo. Salgono, ripartono attraverso la campagna per un’altra ventina di chilometri. Di giorno raccolgono frutta, di notte lavorano in una ditta di pollame; la mattina presto, lo stesso furgone li riporta indietro, per un’altra giornata nei campi.
A organizzare contatti e trasporto è un “caporale nero”: è lui, infatti, che fa incontrare domanda e offerta di lavoro, anello di congiunzione fra i braccianti africani e le aziende agricole della zona. Moumouni Tassembedo, detto Momo, oggi è chiamato a rispondere di sfruttamento di manodopera agricola insieme a due famiglie di imprenditori, Depetris e Gastaldi, nel primo processo per caporalato del nord Italia, ufficialmente aperto lo scorso 24 settembre davanti alla Corte d’Assise di Cuneo. Continua a leggere “Caporalato al Nord. La zona grigia”
Jovan Divjak, il generale dei bambini
Dalla fine della guerra dell’ex Jugoslavia si prende cura di migliaia di orfani attraverso l’istruzione: intervista esclusiva
Di Federica Tourn, Eastwest
Il generale Jovan Divjak, oggi 82 anni, era militare di carriera nell’esercito di Belgrado quando nel ’92 scoppiò il conflitto in Bosnia, ma rifiutò di assecondare le mire espansionistiche di Milošević ed entrò invece a far parte dell’Armija, l’Armata della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina, una forza multinazionale a difesa del paese che si era appena costituito come stato indipendente. Lui, serbo, rimase a Sarajevo come comandante della difesa territoriale della capitale assediata proprio dai serbi di Ratko Mladić, lo stesso che l’11 luglio del ’95 si rese responsabile del genocidio dei musulmani di Srebrenica. Spirito libero, il generale Divjak non ha mai smesso di difendere, con il suo impegno umanitario e la sua testimonianza, una società multiculturale che il mondo non aveva voluto riconoscere né sostenere, annegandola in una narrazione di impossibile coesistenza fra popoli e religioni diverse. Un odio etnico che non esisteva ma fu creato ad arte con una propaganda nazionalista funzionale al potere.
Il paese è ancora spaccato nelle due entità decise a Dayton nel ’95, la Republica Sprska e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina. La divisione fra le tre etnie – serbi, croati e bosgnacchi, i musulmani bosniaci – è sempre molto forte?
La prima cosa che ci separa è l’educazione: Marx sosteneva che la religione è l’oppio dei popoli ma io oggi insisto nel dire che l’educazione è l’oppio dei bambini. Agli studenti della Republika Sprska non dicono che il conflitto è iniziato con l’attacco deliberato dei serbi ma raccontano che si è trattato di guerra civile e che a Srebrenica non c’è stato nessun genocidio; gli studenti della Federazione imparano invece che la Bosnia ha subito l’aggressione serba e sanno tutto del genocidio ma non dei crimini commessi dalla polizia e dall’esercito della Federazione contro serbi e croati. Le scuole in diversi cantoni della Federazione sono divise, hanno programmi totalmente diversi e i ragazzi non si incontrano nemmeno. Il problema in ogni caso inizia in famiglia: è a casa infatti che i bambini imparano a lavarsi le mani o a salutare, imparano la differenza fra il bene e il male e anche che i nemici sono i cetnici da una parte e gli ustascia e i mujaheddin dall’altra. La scuola in questo senso arriva tardi, quando il danno è già fatto.
Continua a leggere “Jovan Divjak, il generale dei bambini”Suore abusate, la chiesa è sorda al #MeToo
Di Federica Tourn
Pubblicato su FQ Millennium, febbraio 2021
«Ero una giovane suora, lui era il responsabile provinciale della mia congregazione. Una sera ha insistito per darmi un passaggio: appena un po’ fuori dal centro abitato ha allungato le mani; mi sono buttata fuori dall’auto e ho visto che si masturbava». Nadia (nome di fantasia) è stata suora per più di trent’anni in Italia, salvo una breve parentesi in una missione africana. Aveva raggiunto un ruolo di rilievo in un importante ente religioso ma, a dispetto di una forte vocazione, ha deciso di lasciare l’abito a causa delle sofferenze patite. Con questa intervista, per la prima volta esce dal silenzio: la sua è una storia di fatica e di sfruttamento, di abusi e di una strenua resistenza a un ambiente corrotto. «Il padre provinciale ha provato moltissime volte a violentarmi – continua – in tante venivamo molestate, bastava rimanere da sola in una stanza e te lo trovavi addosso. Ho detto tutto al suo superiore ma non è servito a niente».
Non è stato l’unico: «Nella mia vita avrei dovuto denunciarne almeno quattro – specifica Nadia – Una volta, in missione in Africa, un prete di un’altra congregazione si infilò in camera mia durante la notte e mi violentò. Oggi è parroco in Belgio». In Italia, mentre frequenta un’università religiosa grazie a una borsa di studio, Nadia viene molestata dal rettore: «Mi ha chiamata nel suo ufficio con la scusa di un documento da fotocopiare – ricorda – e, dopo aver chiuso la porta alle mie spalle, mi ha preso la mano destra e l’ha appoggiata sui genitali per farmi sentire l’erezione». Fa una pausa, si sente il disgusto, tenace attraverso gli anni. «Mi viene una rabbia perché questo prete era cappellano e confessore spirituale di un convento: se ha osato provarci con me, che ero una conosciuta e italiana, cosa avrà fatto con le giovani provenienti da altri paesi, sole e vulnerabili?».
«Che cosa potevo fare? – prosegue Nadia – Era amico intimo di Buttiglione, del cardinale Angelini e di Andreotti: chi mi avrebbe dato retta?». Anni dopo, però, quando ormai non è più suora, Nadia incontra un altro prete, confratello del rettore, e gli racconta che ha studiato alla loro università ma che si è trovata male a causa di quel sacerdote. «“Lo sappiamo” mi ha risposto lui, senza esitazioni – ricorda oggi Nadia – Aveva capito immediatamente a che cosa mi riferivo. Sapevano tutto e non lo hanno fermato».
La storia di Nadia è tutt’altro che un caso isolato e parla di una realtà molto diffusa, che tuttavia fatica ad emergere. Se il dramma della pedofilia nella chiesa è ormai davanti agli occhi di tutti, con tanto di mea culpa ecclesiastici e (alcuni) processi eccellenti, gli abusi sulle suore da parte dei preti restano un buco nero da cui è quasi impossibile far emergere verità, dati e testimonianze, figuriamoci intravedere un percorso di giustizia. Soprattutto in Italia, dove su tutto incombe lo Stato Pontificio. Infatti, se in Francia il tema degli abusi sulle suore è stato trattato dal documentario choc di Eric Quintin e Marie-Pierre Raimbault Religieuses abusées, l’autre scandale de l’Église, trasmesso da Arte, nel nostro paese i tentativi di fare breccia nell’omertà del clero vengono ripagati duramente. Lo sa bene Lucetta Scaraffia, ex direttrice del mensile Donne Chiesa Mondo, supplemento dell’Osservatore Romano: proprio un suo articolo, nel febbraio 2019, ha scatenato la reazione delle gerarchie, portandola alle dimissioni. «Mi fu fatto capire che non dovevamo parlare di abusi sul giornale – racconta oggi – Quando il direttore dell’Osservatore cominciò a voler controllare le bozze, realizzai che la mia libertà d’azione era finita». Prima di andarsene, però, decide di sferrare il colpo e pubblica l’articolo sulle religiose abusate: «Abbiamo ricevuto tantissimi messaggi da parte delle suore, ci lasciavano fiori e bigliettini in redazione per ringraziarci di aver parlato delle loro sofferenze, una cosa commovente», ricorda. Il suo articolo, linkato ovunque al momento della pubblicazione, oggi è irreperibile sul web, quasi non fosse mai stato scritto.
Le donne consacrate non hanno potere decisionale e la loro parola non conta nulla in un ambiente già segnato da una profonda disuguaglianza di genere: «Le suore vivono una grave mancanza di considerazione nella chiesa: il loro lavoro è gratuito o poco pagato e spesso vengono trattate come serve dei preti», conferma Scaraffia. Inoltre la rigida gerarchia interna alle congregazioni mortifica in molti casi le vocazioni personali e costringe le suore a chiedere il permesso alla madre superiora per ogni minima cosa, dai soldi per la biancheria alla possibilità di studiare. Non sono rare le punizioni, soprattutto per le novizie: «Una ex suora ci ha raccontato di essere stata tenuta in ginocchio per ore sulle pietre per non aver eseguito un’incombenza e, in generale, le vessazioni psicologiche sono molto diffuse – racconta la psicologa Lorita Tinelli, del Centro studi sugli abusi psicologici di Bari – Sappiamo di alcuni casi in cui ancora viene utilizzato il cilicio per i pensieri peccaminosi. Le ragazze che prendono il velo devono rinunciare completamente al mondo esterno e levigare il carattere fino ad aderire completamente alle regole della comunità».
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Così il Covid ha creato il limbo delle malate di tumore al seno
Durante il lockdown molte prestazioni sanitarie, considerate non indispensabili, si sono fermate. Fra queste gli esami per la diagnosi precoce del cancro alla mammella. La prima causa di morte oncologica fra le donne
Di Federica Tourn
Pubblicato sul giornale Domani
Alessandra ha 38 anni quando una mattina, guardandosi allo specchio, vede un’ombra sotto il braccio destro. Prova a toccare ma non sente nulla. La sera, a letto, ritenta ed eccola: una pallina dura vicino alle costole, grande come una nocciolina. È cominciata così, come per migliaia di altre donne: un nodulo anomalo, il batticuore, la corsa dal medico e l’improvvisa scoperta di un cancro al seno.
È il marzo del 2019, dopo due mesi Alessandra viene ricoverata per l’intervento: la diagnosi è severa e deve sottoporsi anche alla mastectomia. Tornata a casa, affronta le cure ormonali e la chemioterapia: è determinata, di tumore ne ha già sconfitto uno a vent’anni, non è una persona che si lascia abbattere facilmente.
Ma ecco che capita l’imprevedibile: una pandemia che travolge il paese e chiude frontiere, scuole, imprese e blocca anche molti ospedali, costretti a sigillare interi reparti e a destinare uomini e macchinari all’emergenza sanitaria. In Italia non si parla d’altro che del pericolo di ammalarsi di Covid e tutto il resto sembra congelato.
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Zona disagio. Fortezza Europa criminalizza chi salva vite
Gli ultimi mesi hanno visto l’intensificarsi di strategie repressive messe in atto a livello politico e giudiziario allo scopo di ostacolare, per non dire tentare di annullare in toto, i soccorsi metti in atto dalla società civile nei confronti delle persone migranti. In mare come via terra il lockdown ha reso più complicato il lavoro anche dei mezzi di comunicazione, che hanno faticato a raccontare cosa accedeva e accade tuttora ai nostri confini; un po’ per difficoltà oggettive un po’ perché l’agenda dei media è stata ed è ancora dominata dalla questione pandemia. Telecamere spente e allora via agli esperimenti: respingimenti alla frontiera slovena, incriminazioni varie alle navi nel Mediterraneo.
In principio furono i blocchi amministrativi e le accuse di svolgere il ruolo di “taxi del mare”.
5 maggio 2020: la prima nave fermata è la Alan Kurdi, battente della ong tedesca Sea-Eye, ancora bloccata;
6 maggio 2020: il giorno dopo, è fermata anche la spagnola Aita Mari (dell’Ong Salvamento Marítimo Humanitario);
8 luglio 2020: è invece il turno della Sea Watch 3 nel porto di Porto Empedocle; lunga ispezione a bordo e contestazione di una serie di mancanze e sblocco ottenuto a fine febbraio 2021.
22 luglio 2020: la Ocean Viking di Sos Mediterranée è stata bloccata a Porto Empedocle in seguito a una lunga ispezione. Quest’ultima è stata “liberata” il 21 dicembre scorso dopo cinque mesi esatti;
21 settembre: la nave Sea Watch 4 viene bloccata nel porto di Palermo. E’ stata dissequestrata il 2 marzo 2021;
25 settembre 2020: è il turno della nave Mare Jonio dell’organizzazione non governativa (Ong) Mediterranea, bloccata nel porto di Pozzallo da allora.
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Zona Disagio. Mauro Rostagno, è stata la mafia
La Cassazione conferma la sentenza di appello: condannato il mandante e assolto l’esecutore materiale
Trentadue anni fa, il 26 settembre 1988, il sociologo e giornalista Mauro Rostagno veniva ucciso in un agguato mafioso alle porte di Trapani. Aveva 46 anni e aveva succhiato energia da ogni singolo giorno vissuto: giovanissimo emigrato all’estero, quindi studente di Sociologia a Trento attorno al 1968, assistente alla cattedra di sociologia all’università di Palermo, responsabile regionale siciliano di Lotta Continua (clamorosa l’occupazione della cattedrale con i senza tetto della città), fondatore a Milano del centro sociale Macondo, a cui seguiranno gli anni in India nell’ashram di Osho a Pune e infine Trapani con Saman, prima centro di meditazione, poi comunità terapeutica per tossicodipendenti, cui negli ultimi due anni aveva affiancato il lavoro da giornalista alla rete televisiva locale Rtc. Saranno proprio i suoi servizi, le inchieste e la comprensione della penetrazione di Cosa Nostra a Trapani a portare alla reazione dei capi mafia.
Ora trentadue anni dopo, c’è finalmente anche una sentenza definitiva a certificarlo, pronunciata nel pomeriggio di ieri 27 novembre. Confermata la sentenza di appello, ergastolo al boss trapanese di Cosa Nostra Vincenzo Virga, assolto il presunto esecutore materiale, Vito Mazzara, nonostante le numerose prove a carico.
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Zona Disagio. Mônica e Marielle
Il 14 marzo 2018 Marielle Franco viene uccisa con una scarica di colpi di pistola a Rio de Janeiro. Sociologa e attivista per i diritti Lgbt, ha un sorriso sfacciato, forza, competenza, determinazione; è «negra, favelada, feminista, LGBT, anticapitalista. Uma gigante», come la ricorda la sua compagna, Mônica Tereza Benício. Ha soltanto 39 anni quando la ammazzano. È consigliera comunale a Rio e le sue denunce contro la violenza della polizia danno fastidio: relatrice per una commissione speciale che monitora l’intervento federale a Rio e la militarizzazione della sicurezza pubblica, non ha paura di parlare chiaro. Dopo, pare impossibile averla persa: il colpo è durissimo, la rabbia per il suo assassinio travolgente. Eppure il dolore non ferma chi la amava, sono in tanti e tante a chiedere che venga fatta giustizia, prima fra tutte sua moglie Mônica.
Mônica che non si arrende, perché l’amore non è disgiunto dalla lotta, e oggi, due anni e mezzo dopo, ha vinto le elezioni municipali con il Psol (Partito Socialismo e Libertà) e con la forza di 23mila voti, la terza donna più votata a Rio, riprende il posto che hanno tolto a Marielle insieme alla vita.
«Candidarmi non è stata una decisione facile», dice, e si può bene immaginare. «È un impegno per la sua memoria, per tutto quello in cui abbiamo creduto, per i sogni che abbiamo condiviso». Un impegno che le ha fatto convogliare o luto na luta, il lutto nella lotta, «Per trasformare il mondo che ce l’ha portata via».
La luta principale oggi è contro Bolsonaro e la sua politica violenta, razzista e machista, per un Brasile che merita ben altro. Ma il successo di Mônica a Rio ci dice anche un’altra cosa: che ucciderci non basta a farci tacere, perché altre dopo di noi trasformeranno il dolore in rabbia e la rabbia in politica per le donne, per la comunità Lgbt, per gli sfruttati e per gli esclusi, ovunque.
Un grandioso segno di resistenza e speranza per questo 25 novembre, che non sia solo condanna di femminicidi e legittima richiesta di giustizia, ma anche testimonianza del cammino che le donne continuano a fare, ogni giorno, per cambiare il mondo che le discrimina, le violenta e le uccide.
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(Marielle Franco a Rio de Janeiro nel 2016, foto di Mídia NINJA)
Zona Disagio. Arcore, amore mio
di Claudio Geymonat
Sono forse un po’ deviato, ma vedere Patrizia De Blanck in televisione a me richiama sempre alla mente altre storie. Storie che sono tornate prepotentemente nei miei pensieri in questi giorni in cui l’intramontabile Silvio Berlusconi con una serie di telefonate alle trasmissioni di Fabio Fazio e Giovanni Floris ha compiuto, a dar retta alle cronache sdolcinate del giorno dopo, un ulteriore passo verso quel finale da Padre della Patria che l’ex cavaliere in fondo sogna da sempre.
Il Quirinale è naufragato anni fa, ma un bell’ultimo giro di giostra da gran burattinaio non se lo vuole negare.
Oddio, la De Blanck a dire il vero c’entra proprio poco, se non nulla. Ma il caso ha voluto che il secondo marito della salottiera televisiva di cui sopra, l’amatissimo Giuseppe Drommi, sia stato il primo marito di Anna Fallarino.
E qui si aprono molti file sul nome legato a una tragica vicenda di cronaca. La Fallarino, sposata Drommi, a Cannes conosce il marchese Camillo Casati Stampa di Soncino, ricchissimo, ma ricchissimo davvero, proveniente da una delle più antiche famiglie nobili milanesi. Il Casati spenderà, si dice, un miliardo di lire del 1958!, per ottenere l’annullamento del matrimonio Fallarino-Drommi dalla Sacra Rota, e impalmare un anno dopo la donna, travolti da una passione irresistibile. La loro storia erotica sessuale, ricca di voyeurismo ed esibizionismo, sfociata nel 1970 nell’omicidio da parte del marchese di Anna Fallarino e di un giovane amante, prima di rivolgere l’arma contro se stesso, ci interessa qui soltanto per i risvolti economici seguenti.
Zona Disagio. L’Ungheria riscrive (ancora) un pezzo di storia
Il comunismo, l’olocausto e adesso la letteratura. Il progetto di Viktor Orbán di riscrivere la storia ungherese prosegue da anni a tappe forzate, con qualche inciampo, ma con un obiettivo a medio e lungo termine: allevare una generazione di compatrioti ignari del vero percorso delle vicende del loro Paese.
Un obiettivo pericolosissimo sempre, a qualsiasi latitudine, molto più dello sbraitare sovranista che il premier riserva ai nemici di turno, siano essi l’Europa, i migranti, le organizzazioni non governative.
Primo ministro dal 1998 al 2002 e poi ininterrottamente dal 2010 a oggi e chissà per quanto ancora, Orbán sta avendo tutto il tempo per forgiare la Storia a suo uso e consumo.
Dallo scorso anno i libri di testo che le scuole possono adottare sono solamente quelli prodotti dallo Stato: abolita l’editoria privata e via libera a pubblicazioni dove «l’immigrazione è un pericolo per i valori tradizionali ungheresi», dove «L’Unione Europea è un organismo che favorisce gli Stati del Sud Europa», dove il concetto di multiculturalismo viene spiegato con una fotografia della stazione di Budapest invasa dai migranti nel 2015, in cui si spiega che «i maschi sono più bravi delle femmine in matematica». Solite proteste accademiche, solito silenzio dei media quasi tutti assoggettati, e la notizia passa in sordina.
L’operazione è gigantesca: per questo Orbán si è circondato di una serie di docenti, storici e ricercatori compiacenti. Fra tutti spicca certamente Maria Schmidt, potentissima consigliera e animatrice di alcune delle più discusse iniziative culturali di questi ultimi anni. Prima fra tutte in ordine di tempo il museo del Terrore, dove nazismo e comunismo sono equiparati ed è anzi l’occupazione sovietica a occupare il maggior spazio e, pare di comprendere, le maggiori attenzioni critiche.
Da anni Maria Schmidt tenta di aprire il museo dell’Olocausto, ma qui sta facendo i conti con quel che resta della comunità ebraica del Paese, quasi tutta sterminata durante la Seconda guerra mondiale. L’idea di raccontare un’Ungheria non colpevole, in balia del giogo tedesco, costretta a chinare la testa di fronte a soprusi altrui, proprio non va giù agli eredi dei deportati.
Ora l’ultimo caso: l’inaugurazione di una casa museo dedicata alla memoria dell’unico premio Nobel per la letteratura magiaro, Imre Kertész, nel tentativo di trasformarlo in un eroe nazionale in chiave anticomunista. Finiscono in soffitta, o meglio sotto il tappeto, i feroci attacchi di cui lo scrittore ebreo fu vittima da parte dei partiti di destra, compreso il Fidesz di Orbán, al momento della vittoria del Nobel nel 2002, soprattutto per le parole sull’Olocausto, gli orrori del nazismo e le complicità ungheresi.
Oggi il governo preferisce recuperare le prese di posizione contro il comunismo, dimenticando quello che lo stesso Kertész aveva dichiarato in un’intervista del 2012 a Le Monde: «Niente è cambiato in Ungheria, tutto è uguale a come era nel regime di Kádár, solo che ora è Orbán che incanta il paese».
A ricordarcelo per fortuna ci pensa Eva S. Balogh, ex insegnante di Storia dell’Europa orientale all’Università di Yale e curatrice del blog “Hungarian Spectrum”, che aggiunge altre battute da quell’intervista: «L’Ungheria si rivolta contro l’Europa per la tutela dell’interesse nazionale, il che può dare l’impressione che il Paese stia riguadagnando la sua sovranità. L’Ungheria ha torto, e ciò non è nuovo nella storia del paese». E ancora: «Gli ungheresi si renderanno conto che stanno andando nella direzione sbagliata e Orbán fallirà». In breve, ci vorrà uno sforzo eroico per trasformare Kertész in un personaggio che si adatti allo stampo per lui creato da Orbán, ma sono sicuro che nessuno sforzo sarà risparmiato per rimodellarlo in un vero scrittore “nazionale”.
cg
Zona Disagio. Cronache da Lesbo e Samos, Europa
C’è lockdown e lockdown
Sono passati due mesi da quando un incendio, la notte del 9 settembre, ha completamente distrutto il campo profughi di Moria, a Lesbo. Tredicimila persone sono scappate dalle fiamme riversandosi in strada, lasciandosi (di nuovo!) tutto alle spalle, perdendo le poche cose che possedevano e i documenti per la richiesta d’asilo, fragile filo che li legava all’Europa. Fuori, nella notte, mentre il fuoco sulla collina continuava a bruciare, hanno trovato ad attenderli i lacrimogeni della polizia, accorsa a contenere la fuga.
Hanno vissuto per strada, nei cimiteri, con poca acqua e cibo portato dalle organizzazioni umanitarie, in attesa che le istituzioni locali ed europee decidessero di loro: quella che poteva essere un’opportunità per ripensare la tragica condizione dei richiedenti asilo bloccati nelle isole greche è stata invece l’ennesima conferma dell’indifferenza dell’Europa.
Un nuovo campo è stato montato in pochi giorni lungo la strada principale, a ridosso del mare ed esposto alle intemperie: è stato classificato come temporaneo, ma sembra ormai evidente che i circa settemila occupanti dovranno rassegnarsi a passare l’inverno lì, all’incrocio dei venti che in questa stagione soffiano forti, con il freddo, su un terreno che quando piove (l’abbiamo già visto) si allaga e diventa una piscina di fango. Non c’è acqua corrente, non ci sono fogne, i bagni chimici sono insufficienti e ancora – dopo due mesi – non c’è una doccia per lavarsi.
Intanto, è stato chiuso dalle autorità il centro per persone vulnerabili di Pipka, uno dei pochi esempi virtuosi di accoglienza; i 74 occupanti sono stati trasferiti per il momento nel campo di Kara Tepe, lungo la strada principale, non lontano dal nuovo centro governativo.
Ora anche sulla Grecia è sceso un nuovo lockdown per contenere la pandemia e per chi vive nel campo significa una cosa sola: essere chiusi dentro, come in una prigione, ma da innocenti. Una plastica prefigurazione di quello che dovrebberoro diventare i nuovi campi profughi secondo le previsioni della nuova legge sull’immigrazione, voluta dal premier Kyriakos Mitsotakis ed entrata in vigore il 1° gennaio 2020.
Muore il figlio nella traversata verso Samos: incarcerato
Le cronache della frontiera ci pongono quotidianamente davanti a incredibili escalation di orrore. Sabato notte, il 7 novembre, è annegato al largo dell’isola di Samos un bambino di sei anni mentre tentava, insieme al padre e ad altre persone, di attraversare quel braccio di mare che separa la costa turca dalla Grecia. Il padre, un giovane afgano di 25 anni, è riuscito a sbarcare ed è stato subito arrestato dalle autorità con l’accusa di aver messo in pericolo la vita del figlio: se condannato, rischia fino a dieci anni di carcere.
Le stesse autorità che ignorano volutamente i respingimenti dei gommoni provenienti dalla Turchia oggi mettono in cella un padre disperato: le stesse autorità, greche ed europee, che chiudono gli occhi quando imbarcazioni guidate da uomini incappucciati, o la stessa Guardia Costiera, ributtano i migranti in acque turche con manovre pericolose e azzardate, non hanno remore a imprigionare un uomo sotto choc per la morte del figlio.
Intanto oggi, 11 novembre, un nuovo incendio ha colpito il campo profughi che accoglie circa quattromila persone. È il secondo in una settimana; altri due incendi dolosi erano stati appiccati allo stesso campo a settembre.
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(foto: Stefano Stranges, controlli al nuovo campo profughi di Lesbo, settembre 2020)
Zona Disagio. In Algeria morto Bouregaa, simbolo e protagonista delle rivoluzioni del Paese
Ora Lakhdar Bouregaa potrà finalmente riposare. È morto il 4 novembre ad Algeri. Dopo una vita contro, sempre.
Nato nel 1933, nel 1956 si unisce al Fronte di Liberazione nazionale, che dal 1954 al 1962 combatte contro la presenza coloniale francese nella terribile guerra d’Algeria che tanti strascichi ha lasciato nelle relazioni fra Parigi e l’Africa.
Dopo l’indipendenza, è fra i fondatori del Fronte delle forze socialiste e viene eletto deputato alla prima Assemblea nazionale.
Di fronte all’avanzare di forze autoritarie e allo svanire delle istanze di libertà che avevano acceso tante speranze, sceglie di contrastare da subito Houari Boumedédiène, salito al potere nel 1965 con un colpo di stato.
Arrestato nel 1967, torturato a lungo, nel 1969 viene condannato a trent’anni di carcere ma liberato solo sei anni dopo, nel 1975.
Da allora continuerà a criticare i futuri presidenti: Chadli prima, l’eterno Bouteflika poi.
L’ultima stagione della sua vita lo rivede protagonista assoluto, unico filo rosso rimasto a far da collante fra i “vecchi” che avevano fatto la rivoluzione e i giovani che dal febbraio 2019 hanno invaso le strade delle città algerine per dire basta all’ennesimo tentativo di Bouteflika di rimanere al potere. Bouregaa in varie interviste e comizi manifesta un sostegno senza riserve all’Hirak, il grande movimento di protesta che scuote il paese. Manifestazioni di dimensioni enormi che appena tre mesi dopo, nell’aprile 2019, portano infine alle dimissioni di Bouteflika. Manifestazioni poi sedate con la violenza, ancora una volta, dagli anziani gerarchi, veri custodi dello Stato.
A giugno 2019 per Bouregaa si riaprono di nuovo le porte del carcere nonostante l’età, 86 anni, a seguito di dichiarazioni in cui accusa il generale Ahmed Gaïd Salah, il nuovo-vecchio uomo forte del regime, di aver già scelto il futuro presidente della Repubblica e di prepararsi ad allestire elezioni farsa. Verrà rilasciato solo il 2 gennaio di quest’anno, insieme a vari altri attivisti dell’Hirak, dopo mesi di proteste internazionali.
cg
Zona disagio. Dalla Francia, buone notizie per migranti e solidali
Le frontiere sono il simbolo reale e allo stesso tempo politico della non accoglienza praticata dai Paesi più ricchi, dagli Stati Uniti all’Europa tutta fino all’Oceania, nella cieca illusione dei governanti di turno di bloccare oltre i propri steccati i 272 milioni di migranti internazionali che nel 2019 hanno lasciato le proprie abitazioni e lo Stato di origine, pari al 3,5% della popolazione mondiale.
Dalla Francia in questi giorni sono giunte due notizie che vanno controcorrente e mostrano un volto diverso dei confini, volto di accoglienza e solidarietà.
La prima.
Oltre 40 mila firme in poche settimane hanno fatto tornare sui suoi passi il nuovo sindaco di Briançon, comune francese a pochi chilometri dal confine italiano piemontese, diventato in questi anni luogo di transito per le migliaia di persone che tentano di proseguire attraverso le Alpi il viaggio iniziato in Africa o in Medio Oriente. Nessuna chiusura dunque del Rifugio solidale che dal 2015, grazie al lavoro di tantissimi volontari, ha accolto, rifocillato, indirizzato, curato, più di diecimila persone alle prese con l’attraversata delle montagne.In una lettera del 26 agosto, infatti, il primo cittadino Arnaud Murgia aveva invitato l’associazione “Refuges solidaires” a liberare l’edificio, di proprietà dell’associazione intercomunale che federa i municipi della zona, «entro e non oltre il 28 ottobre». L’occupazione dei locali era consentita da una convenzione, scaduta a giugno, che il sindaco ora non vuole rinnovare.
«Grazie a ciascuna delle vostre voci – si legge nel comunicato stampa di“Refuges solidaires” – di fronte a questa massiccia mobilitazione, il sindaco di Briançon ha riconsiderato la sua decisione di sgomberare il Rifugio. La gente del posto continuerà quindi ad accogliere gli esiliati per tutto l’inverno. Questa è una prima vittoria per la mobilitazione! In vista della primavera, sono allo studio soluzioni di accoglienza sostenibili, con l’aiuto di ong e partner».
Va ricordato che grazie a queste informali e benefiche “pattuglie di confine” francesi allestite dai cittadini con le associazioni umanitarie Tous Migrants e Médecins du Monde, migliaia di rifugiati smarriti, esausti e in ipotermia sono stati soccorsi e messi al riparo.
La seconda.
Il docente universitario di Nizza Pierre-Alain Mannoni è stato scagionato nei giorni scorsi da tutte le cause a suo carico. Nel 2016 era stato arrestato al casello autostradale di La Turbie, appena dopo Ventimiglia, in territorio francese, perché stava trasportando in auto tre donne eritree ferite. Il suo è stato uno dei primi casi, insieme a quello di Cédric Herrou, che hanno contribuito a portare ampio dibattito sul tema dell’accoglienza in questo angolo d’Europa.
L’attivista è stato assolto dalla Corte d’appello di Lione dopo tre anni di battaglie combattute nei tribunali. Già assolto a Nizza in primo grado nel gennaio 2017, l’insegnante era stato poi condannato a due mesi di carcere con sospensione della pena dalla Corte d’Appello di Aix-en-Provence e aveva dunque presentato ricorso alla Corte Suprema. L’alta corte aveva annullato la sua condanna nel dicembre 2018 e deferito il caso alla corte d’appello di Lione, sulla base delle nuove norme dettate dalla Corte Costituzionale francese.
Nel luglio di quello stesso 2018, i giudici costituzionali avevano infatti sancito che il “principio di fraternità”, l’aiuto disinteressato al soggiorno irregolare «non è passibile di conseguenze giuridiche», e obbligato così il governo a riscrivere la legge specificando che, mentre l’assistenza all’ingresso nel territorio nazionale è ancora reato, l’aiuto alla circolazione interna e l’accoglienza non sono punibili se effettuati per scopi umanitari e senza compensazione.
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Zona Disagio. Siria, la strage infinita
«Perdonami se ti ho mandata a scuola, stamattina». Queste le parole che una madre disperata avrebbe pronunciato davanti al corpo della sua bambina, uccisa da una bomba mentre stava camminando verso la sua classe, la mattina del 4 novembre nella provincia di Idlib, in Siria. Secondo la denuncia dell’ong Save The Children, almeno altri tre bambini sono morti e decine di persone sono rimaste ferite da un attacco aereo, che le fonti locali identificano come russo. A Kafraya, a pochi chilometri da Idlib, è stata colpita anche una scuola elementare: poteva essere una strage. Il bombardamento è l’ennesimo episodio di violenza che si abbatte su una regione traumatizzata da quasi dieci anni di guerra e da una realtà quotidiana fatta di morti, terrore e miseria. Lungo la linea del fronte di Idlib, infatti, si concentra quel che resta dell’opposizione al regime di Bashar el-Assad e il cessate il fuoco dicharato a marzo fra Turchia e Siria non è bastato a spegnere le ostilità e la violenza indiscriminata sui civili. Come se non bastasse, sempre qui, dove un anno fa si suicidava, braccato dai militari americani, il sedicente califfo dell’Isis Abu Bakr al-Baghdadi, gli Stati Uniti il 22 ottobre hanno lanciato un’offensiva pesantissima con l’obiettivo di stroncare la riorganizzazione di Al-Qaeda nella zona.
Nelle ultime due settimane, per equilibri geopolitici che probabilmente travalicano i confini siriani, è aumentata notevolmente la tensione fra le forze governative, sostenute dalla Russia, e le varie milizie anti Assad, in parte almeno appoggiate dalla Turchia. Se l’accanimento contro la popolazione civile da entrambe le parti non è purtroppo una novità, come documenta un rapporto della Commissione d’inchiesta sulla Siria dell’Onu l’espansione dell’area di attacco anche in zone considerate sicure del governatorato di Idlib segnala un preoccupante aggravarsi della situazione nel nord-ovest siriano. Lo conferma lo staff di Medici Senza Frontiere, che ha dovuto operare persone ferite da attacchi aerei provenienti da un’area dove fino a qual momento non si erano verificati bombardamenti.
Secondo gli ultimi dati raccolti dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, nel solo mese di ottobre il numero di vittime provocate dal conflitto in Siria ha raggiunto quota 600, di cui 104 civili. Un segnale di allarme, che si aggiunge alla crisi sanitaria dovuta alla pandemia e alla tragedia degli sfollati interni, un milione di persone che nel 2020 sono state costrette a lasciare le proprie case e a vivere in campi profughi esposti alle intemperie – nell’ultima settimana le forti piogge hanno allagato nove centri per sfollati – o spinte lungo la strada traditrice che porta verso un’Europa sempre più blindata.
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(foto Stefano Stranges, “Nel quartier generale del Free Syrian Army”, Aleppo, luglio 2013)
Fermata obbligatoria in zona disagio
Oggi, nella regione in cui viviamo, inizia un nuovo lockdown. Chiusi bar, ristoranti, teatri, palestre e negozi ritenuti non indispensabili, studenti dai 12 anni in su a casa davanti ai pc, vietato andarsene in giro senza autorizzazione. Non ci si può vedere e studiare è di nuovo, sempre più acutamente, un privilegio. Le fabbriche restano aperte, però, ché bisogna produrre e spendere: il capitalismo trova nelle soluzioni per contenere la pandemia la sublime realizzazione del profetico “produci consuma crepa” dei CCCP.
Una fermata obbligatoria, e dobbiamo rispettarla; però, se siamo sufficientemente in salute e abbiamo ancora di che apparecchiare la tavola, abbiamo ancora la libertà di immaginare un’alternativa al livore da social (che peraltro sfianca di noia con la sua ripetitività) ed è l’attenzione a quel che va oltre noi e la chiusura a cui siamo (di nuovo) costretti. Un tentativo di giornalismo non troppo di moda in Italia ma a cui siamo tenacemente affezionati.
Proveremo allora in questo blog a darvi qualche notizia un po’ laterale, pochi commenti e più fatti, magari di quelli che non si vedono perché stanno nei coni d’ombra delle disuguaglianza, della discriminazione e dello squilibrio. Scriveremo di quel che non si vende ma che è essenziale: migrazioni, femminismi, lotte; anche di libri, perché ci piacciono e perché ce n’è bisogno. Vi chiediamo di rimanere con noi in una situazione di disagio per le ingiustizie, di essere inquieti, di rifiutare le semplificazioni della retorica e di non temere la complessità. Aiutateci, se credete, a ragionare. Regalateci foto o disegni, se vi va di contribuire. C’è persino una newsletter, se volete che questo blog vi affligga non dico ogni giorno ma comunque abbastanza spesso: per la vostra dose di disagio periodico, scrivete a amargipress@gmail.com e vi metteremo in lista.
A presto, allora. Niente Stati Uniti, domani iniziamo con una bella (pessima) notizia sulla guerra in Siria, che si vorrebbe finita ma che finita non è.
E, sì, Zona disagio è anche il titolo di un libro di Jonathan Franzen.
(Nella foto, Jimi Hendrix disegnato da Moebius, https://flashbak.com/moebius-illustrations-jimi-hendrix-voodoo-soup-419290/)
Lesbo e dintorni
Tutti gli aggiornamenti dal confine greco-turco
Lesbo, tra i dannati della terra
A Lesbo la situazione è a un punto di rottura, c’è il rischio di una pandemia e la violenza è senza controllo. I fascisti hanno preso il controllo della frontiera, intimidendo, picchiando e sfasciando macchine delle ong e giornalisti. Il fotoracconto di Federica Tourn e Stefano Stranges ospitato dal sito Q Code Mag, clicca qui
Dove i migranti conoscono l’inferno
La tragica condizione di Waled, Fatima, Ibrahim e degli altri 20mila migranti bloccati a Moria. Il reportage da Lesbo di Federica Tourn con le foto di Stefano Stranges su Famiglia Cristiana in edicola dal 7 marzo 2020, qui sotto ora il testo integrale
A Lesbo le ambulanze viaggiano senza sirene. Scivolano silenziose nel nero della notte sulle strade quasi deserte, furgoni con lucine a intermittenza, avanti e indietro dal campo di Moria all’ospedale del capoluogo Mytilene. Stridere di ruote, sbattere improvviso di portiere al pronto soccorso, urla degli operatori; a pochi passi due agenti di polizia fumano nervosamente mentre dall’ambulanza esce la barella con un ragazzo privo di conoscenza e sporco di sangue, un evidente squarcio alla gola. Inghiottito dalla sala urgenze con il suo seguito di infermieri, di lui non si saprà più nulla per giorni: è un numero su una domanda di asilo, un indesiderato, una grana – l’ennesima – per le istituzioni, che non sanno che farsene di questa gente arrivata sui barconi.
Guerra tra bande e donne a rischio nell’inferno di Moria
Migranti feriti nel tentativo di difendersi dai furti. La notte a Lesbo scende il terrore
Di Federica Tourn, Il Manifesto 4/02/2020
Foto: Stefano Stranges
È guerra fra bande nella notte di Moria: nell’hot spot di Lesbo la notte fra l’1 e il 2 febbraio diversi migranti sono stati feriti, alcuni molto gravemente, in una rissa scoppiata in seguito a un tentativo di furto. Un ragazzo è arrivato al pronto soccorso del capoluogo Mytilene in stato d’incoscienza con una ferita al collo e almeno altre due ambulanze hanno fatto la spola fra il campo e l’ospedale. Si è trattato dell’azione di un vero e proprio commando, determinato ad approfittare del fatto che il primo giorno del mese i richiedenti asilo ritirano i 90 euro mensili messi a disposizione dal governo. «E’ stato terribile, è successo proprio vicino alla mia tenda, la strada era piena di sangue», racconta Fatima, una ragazza afgana di 24 anni. È soltanto l’ennesimo episodio di violenza sull’isola greca, dove ormai ogni notte si registrano accoltellamenti, alcuni letali: un ragazzo yemenita è stato ucciso lo scorso 18 gennaio e anche la notte scorsa ci sono stati nuovi feriti; si teme un altro morto, ma non ci sono ancora conferme ufficiali. Continua a leggere “Guerra tra bande e donne a rischio nell’inferno di Moria”
La Bosnia nella palude dei nazionalismi
In Bosnia Erzegovina si acuiscono i problemi lasciati irrisolti alla conclusione della guerra con la partizione etnica e religiosa delle diverse zone del paese
Di Federica Tourn, (Jesus, agosto 2019)
Le acque verdi della Drina, che scorrono per trecento chilometri attraverso la Bosnia orientale, sono state per secoli al contempo una barriera naturale e un simbolo, prima di divisione fra i «turchi» e i cristiani, poi di tra- vagliato collegamento fra i due mondi. Le lotte fratricide nei secoli – racconta il premio Nobel per la letteratura Ivo An- drić – le hanno riempite di morti, fino all’ultima guerra, quella del 1992-’95, quando i cadaveri gettati nel fiume sono diventati talmente tanti da formare delle dighe.
Leggi l’intero reportage qui: reportage bosnia
Italia terremotata
La tragedia della distruzione e il dramma della lenta ricostruzione
Di Federica Tourn (Jesus, aprile 2019)
La terra non tremava così forte dai tempi dell’Irpinia, nel 1980. È il 30 ottobre 2016 quando un sisma di magnitudo 6,5 distrugge interi paesi dell’Appennino dando il colpo di grazia ad Amatrice, già tragicamente piegata dal terremoto del 24 agosto, facendo crollare la basilica
di San Benedetto a Norcia e devastando in particolare le Marche, che contano 25 mila sfollati e danni in 85 Comuni. Quattro giorni prima, altre scosse avevano già raggiunto Visso e pro- strato il Maceratese. A partire dall’estate, il Centro Italia viene attraversato da uno sciame sismico che non vuole acquietarsi e che proseguirà fino alla primavera successiva, coinvolgendo Lazio, Abruzzo, Marche e Umbria con oltre 92 mila scosse, al- cune superiori al 5° grado della scala Richter.
Leggi qui l’intero reportage: Italia_terremotata
I dimenticati dell’Appennino
A oltre due anni dal sisma del 30 ottobre 2016, che causò 25mila sfollati nelle Marche, intere comunità restano polverizzate. A Muccia le costosissime Soluzioni abitative di emergenza mostrano gravi problemi strutturali. Mentre a Tolentino la ricostruzione resta un miraggio
Di Federica Tourn (Left, 1 febbraio 2019)
“Non studio non lavoro non guardo la tv non vado al cinema non faccio sport”: Lorenzo, alla domanda su come viva la sua condizione di terremotato, risponde citando una vecchia canzone dei CCCP. La sua famiglia è dispersa, chi in Selva Val Gardena, chi a Camerino, chi ancora negli alberghi sulla costa. A Muccia, 50 chilometri da Macerata, davanti alla tenda di plastica che cerca di tenere fuori il gelo dal bar, ora ospitato in un prefabbricato, la gente si incontra, fuma una sigaretta, scambia due parole sotto il sole freddo di gennaio, prima di ripartire. Per un impegno, un’occupazione, qualunque cosa purché lontano da qui, dove non c’è più niente.
L’intervista è disponibile sul sito www.left.it
Cristo si è fermato a Budapest
Di Federica Tourn e Claudio Geymonat (Venerdì di Repubblica, 11/01/2019)
C’è una città nel nord dell’Iraq che due anni fa ha cambiato nome: da Tel Skuf è diventata Bint Al-Majar, Figlia di Ungheria. Un ringraziamento per i massicci finanziamenti piovuti in questa fetta di Medio Oriente per precisa volontà del governo di Viktor Orbán. Intento nobile, se non fosse unilateralmente rivolto ai cristiani: «il gruppo religioso più oppresso al mondo, anche se nessuno lo sa a causa delle pressioni delle lobby islamiche internazionali». A parlare è Tristan Azbej, responsabile del primo Dipartimento di Stato per la difesa dei cristiani perseguitati, direttamente dipendente dal primo ministro, un’idea che ora il vice presidente degli Stati Uniti Mike Pence vorrebbe replicare anche a Washington. Continua a leggere “Cristo si è fermato a Budapest”
Cristiani ortodossi verso lo strappo: Kiev lascia Mosca
Di Federica Tourn (Famiglia Cristiana, 06/12/2018)
Il presidente Petro Poroshenko ha annunciato che il 15 dicembre si terrà a Kiev, nella cattedrale di Santa Sofia, il primo Sinodo unito della Chiesa autocefala ucraina. Durante l’assemblea, che riunirà le gerarchie ecclesiastiche delle chiese ortodosse indipendenti dal Patriarcato di Mosca, verrà approvato lo statuto della neonata chiesa nazionale ed eletto il suo primate, che subito dopo andrà a Istanbul a ricevere dalle mani del patriarca Bartolomeo il tomos, cioè l’attestazione formale dell’autonomia. Continua a leggere “Cristiani ortodossi verso lo strappo: Kiev lascia Mosca”
A venti miglia da una nuova vita
Ventimiglia e Bardonecchia, città di frontiera alle prese con la gestione dei flussi migratori che spingono verso la Francia
Di Federica Tourn e Claudio Geymonat ( Left, 1 giugno 2018)
Morts pour la France, morti per la Francia. Il cimitero di Trabouquet a Mentone, prima cittadina dopo il confine di Ventimiglia, è un terrazzo a strapiombo fra le montagne e il mare. Qui governo di Parigi e amministrazioni locali, per il centenario della fine della prima guerra mondiale, hanno dato nome e sepoltura a 1137 soldati. Traoré, Mamadou, Keita, tutti giovanissimi, tutti africani, malgasci e senegalesi in particolare, costretti a forza a render servizio a quella colonia lontana. Da quassù si vedono nitide le due strade con i relativi posti di blocco delle frontiere rispristinate, Ponte San Luigi e Ponte San Ludovico, e si vede l’imbocco del tunnel autostradale in cui lo scorso ottobre Milet Tesfamariam è morto investito da un camion nel tentativo di entrare nel Paese della sua lingua madre. Morti per la Francia, cento anni dopo. Schengen da queste parti è solo un ricordo: controlli serrati, solo per stanare da bagagliai e rimorchi la presenza dell’invasore africano. Ora che non servono, non li vogliono più. Come a Bardonecchia, frontiera alpina, dove la gendarmerie lo scorso marzo ha sconfinato entrando in un centro gestito dalla onlus Rainbow for Africa per costringere un migrante a fare un test delle urine, un chiaro gesto intimidatorio verso stranieri con velleità di ingresso nella République. Continua a leggere “A venti miglia da una nuova vita”
40 anni e 100 passi
Di Claudio Geymonat (Riforma, 09/05/2018)
Parlava, parlava, Giuseppe Impastato, per tutti Peppino. Dai microfoni di Radio Aut, dai palchi e dalle piazze della sua Cinisi, nei cortei; denunciava e sfotteva la mafia, con un coraggio inaudito. Raccontava di affari e crimini, irrideva il capomafia Gaetano Badalamenti, la cui casa si trovava ad appena cento passi dalla sua. Lottava al fianco dei disoccupati, dei contadini. Per lui, nato in una famiglia mafiosa doc, la sfida e il pericolo erano doppi, tripli. Continua a leggere “40 anni e 100 passi”
Tunisia, tra povertà e integralismo
Di Federica Tourn (Jesus, gennaio 2018)
Di notte Tunisi è una sterminata spianata scintillante, una metropoli di oltre due milioni di abitanti sparsi su un territorio di duecento chilometri quadrati che racchiude il nero del lago omonimo. A guardarla più da vicino, però, si notano macchi di buio, quando le luci cedono all’oscurità in corrispondenza delle tante cité, i quartieri popolari dove le strade si stringono nei vicoli e l’illuminazione scarseggia. Ironia della sorte, la grande arteria che taglia in due la città prende il nome dal venditore ambulante che si è immolato contro le disuguaglianze: boulevard Mohamed Bouazizi divide come uno spartiacque zone ricche e luoghi disagiati, da una parte il Bardo con la sua cultura e i suoi locali e dall’altra la Cité Ettadhamen, l’agglomerato costruito illegalmente negli anni ’70 dove viveva l’attentatore che ha sparato a due poliziotti davanti al Parlamento, lo scorso 1° novembre. Quartieri blindati di ambasciate, adorne di zagare e gelsomini, e sterrate coperte di baracche costruite fra i rifiuti, dove l’acqua ristagna e le case non hanno finestre, in una vicinanza scomoda, impenetrabile, che inasprisce le tensioni.
LEGGI L’INTERO ARTICOLO QUI: Tunisia
foto Stefano Stranges
La marcia di solidarietà attraverso il confine, lungo il sentiero dei migranti
Claudio Geymonat (Il Manifesto, 16/1/2018)
In alta val di Susa l’«emergenza» migranti non accenna a diminuire, nonostante le condizioni atmosferiche estreme. «Da 25 anni i politici ci spiegano che il Treno ad Alta Velocità è un’opera indispensabile per spostare in maniera rapida merci e persone. In questa stessa valle gli stessi politici sprangano le frontiere in faccia a donne, uomini, ragazzi, che arrivati qui dopo un viaggio nemmeno immaginabile, chiedono soltanto di proseguire il cammino. Qualcosa non funziona». Maria Grazia è tra le centinaia di persone che domenica scorsa hanno partecipato alla marcia attraverso la frontiera italo-francese per offrire sostegno ai tanti che tentano di passare il confine ma vengono respinti dalla polizia o dal gelo. Avanza nella neve con in mano la bandiera del movimento NoTav, una seconda pelle per tanti in questo lembo di Italia, tornato di nuovo alla ribalta delle cronache da quando le rotte dei migranti, di chiusura in chiusura, sono arrivate fin quassù. Con lei molta gente a piedi, da Claviere, ultimo Comune italiano, a Montgenèvre, il primo paese oltralpe. Continua a leggere “La marcia di solidarietà attraverso il confine, lungo il sentiero dei migranti”
Il medico che ripara le donne
Di Federica Tourn (Left, 29/10/2017)
Da bambino aveva deciso di diventare medico per guarire le persone che le preghiere di suo padre, pastore protestante, non riuscivano a salvare. E’ nata così la vocazione del “dottore che ripara le donne”, il congolese Denis Mukwege, che nel ’99 ha fondato il Panzi Hospital a Bukavu, Sud Kivu, dove ha già curato più di 50mila donne vittime di violenza sessuale. Oggi che il Congo soffre per l’ennesima crisi – con il conflitto che devasta la regione centrale del Kasai e gli scontri, mai del tutto sedati, in Nord e Sud Kivu – l’incertezza per la situazione politica è ancora più pesante e forse toccherà proprio al Mukwege l’ingrato compito di convincere il presidente ad andarsene. Continua a leggere “Il medico che ripara le donne”
Terminal Sicilia
Seduta alla veranda che si affaccia sul giardino la signora Francesca, una vita dietro la cattedra, tiene in mano una grande fotografia di una foglia di acero e Mohammed, 22 anni, gambiano, chino sul tavolo, è intento a disegnarne varie copie che verranno poi colorate da Baba, 16 anni, ghanese. «Mi sembra di tornare ai tempi in cui ero circondata da ragazzi a scuola – sorride Francesca – «ma siamo tutti qui ad esser ringiovaniti grazie a questa nuova quotidianità». Il signor Francesco, 80 anni, poeta del gruppo, annuisce convinto e prepara nuovi versi da proporre in anteprima.
Siamo a Vittoria, 27 chilometri a ovest di Ragusa, alla Casa di riposo evangelica valdese dove si realizza un inconsueto scambio generazionale e culturale, un imprevisto felice dal punto di vista organizzativo ma soprattutto umano.
«Le nostre denunce su Rupnik e il muro di gesuiti e Vaticano»
Di Federica Tourn
Domani, 29 dicembre 2022
Quindicesima puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.
Una nuova testimonianza aggrava la posizione di Marko Rupnik, il noto teologo e artista al centro dello scandalo per abusi su diverse suore in Slovenia e a Roma. Dopo “Anna”, che ha rivelato a Domani le violenze subite dal gesuita quando era una religiosa della Comunità Loyola, Ester (nome di fantasia), oggi 60 anni, all’epoca segretaria della madre superiora Ivanka Hosta, racconta le repressioni messe in atto nella Comunità e il silenzio dei gesuiti e della Chiesa. Le stesse autorità ecclesiastiche che oggi si dicono addolorate per le vittime e che affermano di non essere state al corrente dei fatti, in realtà più volte segnalati nel corso degli anni.
Quando è entrata nella Comunità Loyola?
Sono stata fra le prime: a Lubiana nel 1984 si era costituito un gruppo di quattro sorelle da cui tre anni dopo ha avuto origine la Comunità. Nell’88 eravamo già in venti: io allora avevo 25 anni ed ho preso i voti perpetui insieme ad altre sei sorelle, fra cui la superiora Ivanka Hosta, mentre le altre hanno emesso i voti per tre anni con l’impegno di ripeterli nel ’91, in occasione dei 400 anni della nascita di Ignazio di Loyola.
Qual era il rapporto fra Marko Rupnik, Ivanka Hosta e le sorelle della comunità?
Rupnik ci diceva che Ivanka aveva il carisma ma non lo sapeva trasmettere: solo lui poteva interpretare questo suo dono e trasmetterlo a noi sorelle. In questo modo costruiva un muro tra Ivanka e le altre suore della Comunità, che non riuscivano a confidarsi con lei. Padre Rupnik le ha legate a sé e non ha permesso una relazione sincera tra Ivanka e le altre sorelle. Pian piano è diventato questo lo stile dei rapporti tra di noi.
Com’era la vita nella comunità slovena?
Io ho vissuto con grande gioia i primi cinque anni di vita in comune e pensavo che anche per le altre sorelle fosse lo stesso. Ero del tutto ignara della sofferenza nascosta e degli abusi che subivano alcune di loro. Tutto è cambiato nel 1989 quando, dopo gli studi di teologia, sono stata mandata a Roma a studiare diritto canonico e a lavorare a Radio Vaticana. Qualcosa si è incrinato dentro me. Credevo che il problema fosse la stanchezza o l’immersione in un nuovo ambiente, con altre abitudini, ma anni dopo ho capito che l’inizio del mio buio era dovuto a padre Rupnik. Già negli anni vissuti a Mengeš, in Slovenia, mi vietava di vivere l’amicizia profonda che avevo con una delle sorelle, dicendomi che era una dipendenza insana, un segno di egoismo; a Roma poi mi ordinò di tagliare del tutto i ponti con lei. Questa esperienza ha cambiato il modello delle mie relazioni: non c‘era niente di stabile nei rapporti che avevamo, non c’erano più amicizie. Non solo: padre Rupnik ci chiese di scrivere una lettera ai nostri genitori e alla nostra famiglia in cui comunicavamo che per un anno non avremmo più avuto nessun rapporto con loro: niente visite, lettere o telefonate. Io in particolare dovevo scrivere quanto fossi preoccupata per la loro salvezza, elencare i loro difetti all’origine di questa preoccupazione. La lettera mi sembrava troppo dura ma la sorella che doveva “approvarla” aggiunse anche altre cose, ancora più tremende. Ho dovuto spedire la lettera e ancora oggi porto in me il ricordo amaro del loro dolore.
Quando ha saputo degli abusi sessuali di Rupnik?
Nel ’93, quando ci sono state le prime denunce alla madre generale. “Anna” ha parlato di quello che era successo con padre Marko e prima di lei era andata da Ivanka l’altra sorella con cui Rupnik aveva avuto il rapporto a tre, a Roma. Da quel momento molte altre sono venute da me a dirmi che erano state abusate da Rupnik e io dicevo loro di rivolgersi a Ivanka, perché era la superiora. Erano anni che le vedevo piangere, già dal 1985, ma solo in quel momento ho capito il motivo, per me prima inimmaginabile.
Che cosa è successo quando “Anna” ha deciso di denunciare apertamente Rupnik alle autorità ecclesiastiche?
Rupnik è stato allontanato dalla Comunità dall’arcivescovo di Lubiana Alojzij Šuštar. Ricordo che io stessa ho avuto l’incarico di portare tutti i suoi quadri al Centro Aletti a Roma. Era furioso.
Hosta come spiegò la sua partenza?
Radunò le sorelle e disse che Rupnik era stato mandato via perché voleva impossessarsi del carisma della Comunità e farsi passare da fondatore, ma noi del Consiglio che le eravamo più vicine conoscevamo il vero motivo. Così come lo sapeva il vescovo Šuštar e padre Lojze Bratina, all’epoca provinciale sloveno dei gesuiti. A padre Bratina avevo raccontato tutto io stessa ma lui mi aveva risposto che non ci credeva.
Da quel momento che cosa è successo?
La Comunità ha cominciato a funzionare come una vera e propria setta. Ivanka, credo per paura che la notizia degli abusi di Rupnik uscisse in qualche modo e compromettesse il futuro della comunità, ha taciuto e ha assunto con noi un atteggiamento totalmente repressivo e controllante. Non si dovevano più salutare gli amici di padre Rupnik o coloro che lo frequentavano, non si poteva più liberamente scegliere il confessore e neanche dirgli tutto. Veniva pure verificato che cosa avevamo detto in confessione e le risposte date dal confessore. La guida spirituale poteva essere soltanto una sorella della Comunità: o era la superiora stessa o, con il suo permesso, un’altra sorella. Il contenuto della preghiera personale doveva essere condiviso con le altre e Ivanka si attribuiva il diritto di giudicare quando una preghiera era genuina e quando non lo era. La sorella che non pregava bene spesso doveva insistere in cappella finché non pregava come voleva Ivanka, altrimenti veniva segnalata come persona in crisi, il che era sempre considerato una colpa, una chiusura nei confronti di Dio. La libertà personale era quasi completamente azzerata. A causa di questo clima buio e minaccioso la Comunità si è dimezzata: nel giro di pochi anni siamo uscite in 19, una addirittura è scappata dalla finestra.
Ci sono state reazioni da parte dei gesuiti o della Chiesa in generale?
Nessuna. Non uno che si sia interessato, almeno ufficialmente, della separazione fra Ivanka Hosta e padre Rupnik e della successiva disgregazione della Comunità. Nel ’98 sono andata in curia dai gesuiti e ho raccontato tutto di nuovo, stavolta al delegato per le case internazionali a Roma padre Francisco J. Egaña, ma ancora una volta non è successo niente. Dopo, per anni, ho vissuto con una grande ferita senza più avere rapporti con nessuna finché, prima del lockdown, ho incontrato una ex sorella che mi ha detto che la Comunità era stata commissariata.
Che cosa ha fatto dopo essere uscita dalla Comunità Loyola?
Lavoravo già in un’università cattolica a Roma. Al momento delle mie dimissioni dalla comunità, Ivanka è andata dal mio superiore per dirgli di sostituirmi con un’altra sorella: per fortuna si è rifiutato.
È in contatto con le sorelle che attualmente vivono nella comunità?
Con qualcuna. Molte hanno seri problemi fisici e psichici a causa delle violenze psicologiche e spirituali che hanno subìto. Alcune assumono farmaci che le devastano: una l’ho rivista ad un funerale e non l’ho nemmeno riconosciuta, tanto era segnata dall’effetto delle medicine. Prima Marko e poi Ivanka sono riusciti a togliere loro quel poco di autostima che avevano.
Per appoggiare la denuncia di “Anna”, lo scorso giugno lei ha scritto una lettera sugli abusi di Rupnik indirizzata ai gesuiti e a diverse personalità della Chiesa, dal prefetto del Dicastero per la dottrina della fede Luis Ladaria al cardinale vicario di Roma Angelo De Donatis. Qualcuno le ha risposto?
Nessuno. E dire che molti di loro li conosco personalmente.
La conferenza espiscopale slovena il 21 dicembre ha detto che prova “dolore e costernazione” per gli abusi, “rimasti ignoti per tanti anni”. È così?
All’epoca tanti erano al corrente dei fatti, dal vescovo di Lubiana al provinciale dei gesuiti fino al fondatore del Centro Aletti, il teologo Tomáš Špidlík. Nemmeno oggi i vescovi sloveni possono dire che non sapevano: “Anna” ed io abbiamo spedito via pec le nostre lettere anche all’attuale arcivescovo di Lubiana Stanislav Zore, al provinciale sloveno padre Miran Žvanut e a padre Milan Žust, superiore della Residenza della Santissima Trinità al Centro Aletti di Roma, che è anche il superiore di padre Rupnik. Non credevano che saremmo andate tanto avanti nella denuncia pubblica e hanno detto mezze verità per cercare di cavarsela.
Sia i vescovi sloveni che il cardinale De Donatis ora condannano gli abusi ma invitano a distinguere fra i peccati di Rupnik e ciò che ha espresso con la sua arte. Che cosa ne pensa?
L’arte è espressione di quel che lui insegna, riflette la sua personalità. Non si può dire che l’arte e il ministero sono due cose separate, Rupnik stesso ha sempre sottolineato che sono due elementi intimamente connessi. Finché la Chiesa non capisce che l’essere abusatore di padre Rupnik è legato al suo essere artista, continuerà a minimizzare la gravità di quel che è successo.
Nuove accuse al gesuita Rupnik: si allarga lo scandalo che sta scuotendo la chiesa
Di Federica Tourn
Domani, 23 dicembre 2022
Quattordicesima puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.
Padre Marko Rupnik, il noto artista accusato di aver abusato di alcune suore negli anni ’90 e inchiodato dalla testimonianza di una ex religiosa (pubblicata su Domani il 18 dicembre), continua a causare lotte intestine fra i gesuiti e imbarazzo in Vaticano. Lo “tsunami Rupnik”, come l’ha definito su twitter l’ex provinciale gesuita Gianfranco Matarazzo, diventa sempre più imponente e minaccia di travolgere non soltanto la Compagnia ma la Chiesa tutta. Un’altra religiosa della Comunità Loyola ha detto alla Catholic News Agency di aver subito manipolazioni e umiliazioni spirituali da Rupnik: «era una persona egocentrica e violenta: voleva sempre essere al centro dell’attenzione e sottomettere gli altri al suo potere». «Le autorità ecclesiastiche hanno sempre coperto tutto – ha confermato la suora – ma gli abusi non si limitano certo soltanto alla Comunità Loyola».
Dopo le rivelazioni della stampa, i gesuiti sono stati però costretti ad ammettere che Rupnik aveva subìto ben due procedimenti ecclesiastici: uno da parte del Dicastero per la dottrina della fede, concluso lo scorso ottobre con la prescrizione dei fatti, e un altro nel 2020 sempre davanti allo stesso Dicastero (all’epoca Congregazione per la dottrina della fede) per “assoluzione del complice in confessione”. Un comportamento che aveva portato a una sentenza di scomunica latae sententiae, vale a dire immediata. Scomunica che, come è stato confermato dai gesuiti, era stata però revocata pochi giorni dopo dalla stessa Congregazione. Chi ha voluto cancellare le conseguenze di un reato considerato talmente grave da prevedere una condanna automatica? L’ordine è partito da papa Francesco? Difficile pensare che il pontefice non fosse a conoscenza dei fatti che coinvolgevano una persona in vista come Rupnik.
Certo è che, pur sotto indagine e nonostante le restrizioni che la Compagnia gli aveva imposto già nel 2019 (misure cautelari ancora in vigore, secondo quanto riportato dal preposito generale dei gesuiti Arturo Sosa Abascal), Rupnik non ha smesso di viaggiare, condurre esercizi spirituali ed esercitare incarichi importanti in diversi dicasteri vaticani. Fino al 2020 era direttore del Centro Aletti e in agenda aveva anche la direzione degli esercizi spirituali al Santuario della Santa Casa di Loreto per il febbraio 2023. Insomma, molti nella Chiesa erano a conoscenza dei suoi “problemi comportamentali” ma Rupnik, nonostante le denunce e le indagini interne, ha continuato a esercitare il suo ministero e a ottenere apprezzamenti come niente fosse. A fine novembre 2022 ha ricevuto anche una laurea honoris causa dalla Pontificia università cattolica del Paranà, in Brasile, e ad oggi risulta ancora consultore del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione.
Intanto qualcosa, almeno apparentemente, si muove. Sul sito della curia generalizia della Compagnia di Gesù è comparso il 18 dicembre un appello in cui si invita chiunque voglia denunciare nuovi fatti a rivolgersi direttamente ai gesuiti tramite una mail apposita. Lo stesso ha fatto pochi giorni dopo la conferenza episcopale slovena, che il 22 dicembre ha espresso «grande dolore e costernazione» e «vicinanza alle vittime». Una dichiarazione sottoscritta anche dal presidente dei vescovi sloveni, monsignor Andrej Saje, e dall’arcivescovo di Lubiana Stanislav Zore, che hanno auspicato maggiore trasparenza e tolleranza zero nei confronti di ogni abuso, fisico, sessuale, psichico e spirituale. Una parte dell’attuale chiesa slovena, cresciuta alla scuola di Rupnik e del Centro Aletti, è oggi infatti alle prese con un travaglio interno particolarmente acuto a causa dello scandalo. I vescovi sloveni si sono detti dalla parte delle vittime, «rattristati perché per decenni non sono state ascoltate», e hanno promesso di fare «del loro meglio per seguire con maggiore attenzione ciò che accade nelle comunità ecclesiali, affinché in futuro non avvengano più abusi di autorità da parte di chi ha incarichi di responsabilità».
Da parte sua, il vescovo ausiliare di Roma Daniele Libanori, commissario incaricato della comunità Loyola dove sono avvenuti gli abusi, ha confermato in una lettera ai sacerdoti che «le notizie riportate dai giornali corrispondono al vero». «Le persone ferite e offese, che hanno visto la loro vita rovinata dal male patito e dal silenzio complice – scrive Libanori – hanno diritto di essere risarcite anche pubblicamente nella loro dignità, ora che tutto è venuto alla luce». Se sul “caso Rupnik” sia davvero emerso tutto, è però ancora da vedere.
Foto di
: la cattedrale di Lubiana«Così don Luigi ci ha molestati per anni davanti a tutti»
Di Federica Tourn
Domani, 23 ottobre 2022
Decima puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.
Salgono a tre i bambini abusati da monsignor Luigi Gabbriellini, parroco di Santa Maria madre della Chiesa e Santa Marta a Pisa, attualmente sottoposto a processo canonico. La vicenda è emersa dopo la denuncia al vescovo di Pisa Giovanni Paolo Benotto da parte di due fratelli, come abbiamo raccontato su Domani del 21 settembre. In una nota ufficiale del 15 settembre, monsignor Benotto aveva chiesto perdono a nome della Chiesa pisana per lo scandalo che aveva coinvolto il sacerdote, nome di spicco all’interno della diocesi, e ne aveva accettato le dimissioni. Ora, un cugino alla lontana dei due fratelli si è rivolto al Servizio diocesano per la Tutela dei minori per segnalare di essere stato anche lui molestato dal sacerdote.
Giulio, 39 anni, suo fratello Davide, 35, e il cugino Luca, di 33, hanno deciso di raccontare a Domani i fatti accaduti più di vent’anni fa, quando don Luigi era parroco della chiesa di Santo Stefano extra moenia a Pisa. I nomi sono di fantasia: le vittime hanno chiesto l’anonimato per non esporre le famiglie alle ripercussioni mediatiche. «Vogliamo rendere nota la nostra storia non soltanto per un desiderio di verità ma anche per evitare che quello che abbiamo sofferto possa accadere ad altri bambini», precisa Giulio, che si è deciso a denunciare la violenza quando ha scoperto che anche il fratello era stato abusato dal prete amico di famiglia. «Ancora oggi non riesco a perdonarmi di aver permesso a questo prete di officiare il mio matrimonio e il battesimo della mia prima figlia – spiega Giulio – vivevo in una bolla che è finalmente scoppiata quando ho parlato con mio fratello e mi sono reso conto di non essere il solo a portare questo peso».
Davide, che oggi vive all’estero, aveva mandato una mail al prete un anno e mezzo fa, in cui gli chiedeva conto dell’abuso subito quando era piccolo: «mi ha risposto che non era stato lui e che si trattava di un caso di omonimia», racconta. Invece, è proprio il don Luigi giusto, come è stato confermato espressamente dal vescovo ai due fratelli. «Monsignor Benotto in primavera ci disse che don Gabbriellini aveva confessato e di non preoccuparci perché lo avrebbe tenuto lontano dai bambini – afferma Giulio – invece il prete ha celebrato le comunioni e le cresime in parrocchia come se nulla fosse».
L’investigatio previa sul sacerdote, avviata a fine aprile, è tuttora in corso, ma il vescovo ha assicurato via mail a Giulio che a breve il dossier verrà mandato in Vaticano al Dicastero per la dottrina della fede. Le vittime, però, non hanno più fiducia nella giustizia ecclesiastica: «da quando la storia è uscita sui giornali, il vescovo, prima molto sollecito nei confronti miei e di mio fratello, ha preso le distanze», spiega ancora Giulio.
I rapporti fra monsignor Benotto e i due fratelli si raffreddano ulteriormente quando a settembre le vittime vengono a sapere da amici, che frequentano la parrocchia di Santa Maria della Chiesa e Santa Marta, che don Luigi si sta preparando a lasciare l’incarico. «Eravamo preoccupati che lo facessero sparire senza una spiegazione», dice Giulio. «Quando ci siamo incontrati – aggiunge – il vescovo ci disse che, a seconda della gravità della sentenza, don Luigi poteva essere ridotto allo stato laicale, o destinato altrove, o mandato a occuparsi di una casa di riposo: quest’ultima opzione monsignor Benotto la definì la peggiore punizione per un prete».
Evidentemente, stare in mezzo a chierichetti e bambini dell’oratorio è considerato più gratificante che occuparsi della pastorale degli anziani. Certo è che don Gabbriellini in parrocchia si trovava bene: era stimato e rispettato da tutti, tanto che non faticava a stringere legami di amicizia con i fedeli, rapporti che continuavano anche fuori dalla chiesa. In casa dei due fratelli, infatti, don Luigi viene spesso invitato a cena e con la famiglia condivide vacanze e giorni di festa. Il fatto che giochi con i bambini e li faccia ballare sulle ginocchia è vista come una cosa normale, il segno della confidenza e dell’affetto di uno “zio” che li frequenta abitualmente. D’altronde è un amico intimo: ha la fiducia totale dei genitori e anche la riconoscenza, visto che è sempre lui che presta loro del denaro in un momento di difficoltà economiche.
Questa aura di prete buono, sempre presente e disponibile ad aiutare in caso di bisogno, getta fumo negli occhi dei parrocchiani, che vedono quello che vuole lui e non quello che fa ai bambini. Eppure lui non si nasconde ma, anzi, arriva ad accarezzare i piccoli sotto la maglietta di fronte a tutti in chiesa o durante le gite della parrocchia. Nessuno trova da ridire: «sono convinto che con questi gesti volesse normalizzare la sua propensione a toccare i bambini – riflette Giulio – era una strategia per abituare le persone a vederlo vicino ai piccoli». Un’intera comunità pare sotto l’incantesimo di questo prete: non uno, in Santo Stefano, sembra notare qualcosa di strano nel suo comportamento, nemmeno gli altri sacerdoti. «Ho chiesto a un altro prete se si fosse accorto delle inclinazioni pedofile di don Luigi – riferisce Luca – ma lui mi ha risposto subito di no». Salvo poi ricordarsi qualcosa: «in seguito mi ha detto che in effetti aveva visto don Luigi mettere una mano sotto la maglia a un ragazzino mentre lo confessava».
Questo modus operandi di avvicinamento graduale ai minori, fino a instaurare un rapporto di disinvolta confidenza con loro in contesti rassicuranti come la famiglia o le attività ricreative organizzate dalla chiesa, permette al prete di molestare per anni i bambini, praticamente davanti agli occhi dei parrocchiani e degli stessi genitori. Luca racconta che il suo abuso è avvenuto nel 1997, quando aveva appena otto anni, durante una gita della chiesa in un paese di montagna: «ero seduto sulle sue ginocchia e don Luigi all’improvviso mi ha toccato i genitali – dice – i miei erano a trenta metri da noi, insieme a un altro gruppo di genitori». Un’esperienza simile è toccata a Davide: «eravamo in sala da pranzo, seduti al tavolo, e io ero seduto sulle ginocchia di don Luigi: i miei piedi non toccavano terra, avrò avuto otto o nove anni al massimo – ricorda – i miei genitori erano seduti dall’altra parte del tavolo e parlavano con il prete, che intanto aveva la mano nei miei pantaloni». Una tortura che va avanti per più di mezzora: «la tovaglia nascondeva le nostre gambe – aggiunge Davide – io ero congelato ma i miei genitori erano presenti e ho pensato che non c’era niente di male».
Monsignor Gabbriellini non si limita a una volta sola. Davide è chierichetto e il prete coglie ogni occasione per insidiarlo: «ci trovavamo il sabato pomeriggio e io non avevo voglia di andare in parrocchia, perché sapevo che sarei rimasto da solo con lui in sacrestia – dice – cercava sempre di baciarmi e ancora oggi potrei riconoscere l’odore del suo dopobarba». Gli assalti del sacerdote a Davide sono andati avanti dal 1995 fino al 2000, quando il ragazzo ha lasciato Santo Stefano. Il maggiore dei fratelli, Giulio, invece è stato abusato più volte nel 1994, quando aveva undici anni; le molestie sono poi continuate fino al ’97, soprattutto durante i campi estivi e una volta in occasione di un colloquio personale. Il prete utilizzava il suo ascendente sui ragazzi per favorire le occasioni propizie alle molestie: «era dispotico, sapeva imporsi ed esercitava una grande influenza nella vita delle persone – spiega Giulio, che è stato chierichetto e catechista – noi ragazzi eravamo in soggezione e lui ne approfittava per entrare in intimità con noi». È un progressivo varcare dei confini: «prima ti abbracciava, poi ti prendeva in collo e lì già sapevi come sarebbe andata a finire». Il predatore conosce bene il suo territorio di caccia, dove si muove con disinvoltura: «individuava con precisione i bambini più vulnerabili e si dedicava a loro con costanza, li faceva sentire importanti – dice ancora Giulio – era una tattica: chi subiva abusi riceveva più attenzioni degli altri».
Oggi non si sa dove si trovi monsignor Gabriellini. Subito dopo la denuncia al vescovo, Giulio ha detto tutto a parenti e amici e, in soli due giorni, in tre lo hanno cercato per raccontargli che a loro era successa la stessa cosa: «mio cugino Luca e un’altra persona mi hanno riferito di essere stati abusati da don Gabbriellini e una terza vittima ha invece parlato di un altro prete in provincia di Pisa», dichiara Giulio. La responsabile del Servizio per la Tutela dei minori e degli adulti vulnerabili, suor Tosca Ferrante, il 19 settembre affermava che non c’erano altri casi di abuso nella diocesi oltre ai due fratelli; contattata da Domani il 18 ottobre per un aggiornamento, non ha risposto.
Giulio, Davide e Luca a breve chiederanno il risarcimento in sede civile. Invitano altre persone che abbiano informazioni di fatti recenti che riguardano don Gabbriellini a rivolgersi alla Rete L’Abuso per poter presentare un’istanza che accerti che il prete sia in condizioni di non nuocere ad altri bambini. «Nella condotta compulsiva di queste persone si riscontra un pericolo per la collettività – spiegano le vittime – e dato che conosciamo bene la prassi dei vescovi di spostare i preti pedofili in altre parrocchie, vogliamo evitare che continui ad essere a contatto con i minori».
Il mea culpa del vescovo di Pisa sul prete accusato di pedofilia
Di Federica Tourn
Domani, 21 settembre 2022
Nona puntata dell’ampia inchiesta che Federica Tourn sta conducendo per il quotidiano Domani sugli abusi all’interno della chiesa cattolica in Italia.
«A nome mio e della Chiesa pisana che rappresento, chiedo perdono a chi ne è stato vittima e a quanti ne soffrono per lo scandalo che oscura il volto della Chiesa». Sono parole forti quelle scelte dal vescovo di Pisa Giovanni Paolo Benotto per comunicare che ha accettato le dimissioni di don Luigi Gabbriellini, 74 anni, e che il prete è al momento sotto processo canonico con l’accusa di abuso sessuale e molestie a danno di minori. Il fatto che monsignor Benotto usi l’indicativo in riferimento alle vittime, e la scelta di non menzionare nemmeno una volta nel comunicato la presunzione di innocenza dell’accusato fino alla conclusione del processo, non danno per una volta adito a dubbi sulle responsabilità del sacerdote, che infatti si è dimesso.
Nella nota della diocesi, diffusa il 15 settembre, il nome non non viene fatto ma è non è certo un segreto, dato che nel comunicato monsignor Benotto ha la correttezza di indicare l’ultimo incarico del prete, fino a pochi giorni fa parroco di Santa Maria madre della Chiesa e Santa Marta a Pisa. Don Luigi è dunque finito davanti al tribunale ecclesiastico per aver violentato una ventina di anni fa due fratelli, all’epoca dei fatti di 9 e 13 anni. Le due vittime, oggi adulte, hanno segnalato al Servizio diocesano per la Tutela dei minori gli abusi subiti e nell’aprile scorso, «appena è stata ricevuta la denuncia», sottolinea il vescovo, il processo è stato avviato e il sacerdote temporaneamente sospeso dalle sue funzioni fino all’esito del procedimento.
C’è mancato poco, però, che riuscisse a farla franca. Infatti – come racconta una fonte interna alla Chiesa – da giorni erano già pronti sul tavolo del vescovo ben due comunicati sul conto di don Luigi, ben diversi uno dall’altro. Uno annunciava il congedo del prete dalle parrocchie per motivi di salute e l’altro, quello che poi è uscito, comunicava con dolore e costernazione il vero motivo delle avvenute dimissioni. Qui, però, è successo l’imprevisto: una delle due vittime ha accusato direttamente il prete sul suo profilo Facebook (poi oscurato). Il clamore seguito al post ha portato il vescovo, per tutelare il buon nome della diocesi, a fare pubblica ammenda e a rendere noto il processo canonico in corso a carico di don Luigi.
Ora il suo posto è stato prontamente preso da un altro sacerdote, don Lucasz Kostrzewa, arrivato in fretta e furia da Barga, in provincia di Lucca. Don Lucasz, come scrive il parroco di Barga monsignor Stefano Serafini sul Giornale di Barga, sapeva già da mesi, allertato dal vescovo, di dover essere trasferito in un’altra comunità della diocesi, e sabato scorso ha preso immediatamente servizio nell’unità pastorale del parroco dimissionario.
Lo scandalo è però soltanto all’inizio ed è destinato a dare ancora molte preoccupazioni al vescovo di Pisa. Infatti, non s il Servizio diocesano per la tutela dei minori sta verificando la veridicità della segnalazione di un’altra vittima di don Luigi, ma alla Rete l’Abuso, associazione dei sopravvissuti agli abusi sessuali del clero, sono arrivati in questi giorni dei messaggi di denuncia a carico di un altro sacerdote della diocesi. In uno di questi, infatti, una ex parrocchiana accusa un altro prete di averla molestata: «Ho 58 anni e vivo a Pisa – si legge nel messaggio – quando avevo 12 anni, don Paolo (nome di fantasia) mi accompagnò in canonica e si fermò nel corridoio, mi spinse contro il muro e cominciò a palpeggiarmi ovunque. Io ricordo che ero un pezzo di marmo, ma credevo fosse legittimo». «Ho provato a dirlo – continua – ma ho trovato un muro di gomma. Quello che fa più male, a parte l’esperienza in sé, è l’omertà di tutta la comunità parrocchiale, non solo del parroco e dei preti».
È un fatto che don Gabbriellini non è stato sospeso ad aprile, quando è arrivata la denuncia al Servizio diocesano ed è iniziato il conseguente processo canonico, ma ha continuato a occuparsi delle parrocchie fino alla settimana scorsa. Ha persino celebrato le comunioni dei bambini a maggio, come segnala indignata un’altra fedele: «sono arrabbiata e triste perché se la curia sapeva, avrebbe dovuto sospenderlo in attesa delle decisioni del tribunale – scrive una madre alla Rete L’Abuso – pensare che è quest’uomo che ha dato la prima comunione a mio figlio mi fa vomitare».
Sotto il profilo della responsabilità penale, i fatti al vaglio dell’indagine ecclesiastica sono ormai prescritti, ma i due fratelli potrebbero decidere di rivolgersi alla giustizia civile, dove i termini per la prescrizione sono diversi, e chiedere un risarcimento al prete per gli abusi subiti.
Don Luigi Gabbriellini, oltre alla funzione di parroco, ricopriva anche altre mansioni di rilievo nella diocesi, fra cui quella di amministratore parrocchiale della chiesa di San Matteo e vicario episcopale della città di Pisa. Decaduto da tutti gli incarichi, il sacerdote non è al momento reperibile.
Foto di Elias Rovielo