6 marzo, un ponte di corpi in piazza e sui confini

Un ponte simbolico unirà le piazze e i confini italiani, e non solo, con la Bosnia per chiedere una reale accoglienza e l’apertura delle frontiere. Già molte le adesioni

Il 6 marzo, lungo i confini e nelle piazze di diverse città, un gruppo di donne (e uomini) costruirà con i propri corpi un ponte simbolico per denunciare le continue violenze e i respingimenti di cui sono vittime le persone che tentano di raggiungere un luogo in cui poter vivere con dignità.

La strada dei migranti lungo la rotta balcanica è tutta in salita. L’Unione Europea pratica ormai da anni respingimenti collettivi e illegali in maniera sistematica di migranti anche richiedenti asilo, che vengono rispediti in Bosnia dopo aver subito umiliazioni, violenze e torture. L’efferatezza della polizia croata è ormai tristemente nota a tutti, così come la responsabilità europea. Per questa pratica illecita il Viminale è stato di recente condannato dal Tribunale di Roma. Le condizioni in cui i migranti bloccati al confine bosniaco sono costretti a vivere, senza potersi rimettere in cammino, senza potersi lavare, senza un letto dove dormire sono intollerabili. E a farne le spese è anche chi, i migranti, cerca di aiutarli, tanto in Bosnia quanto in Italia. Proprio come è accaduto di recente a Gian Andrea Franchi, cofondatore dell’associazione Linea d’Ombra, accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina solo per aver aiutato chi aveva bisogno.

Per questo e per le molte violazioni del diritto internazionale e umano, per rifiutare il razzismo e le discriminazioni, per non accettare intimidazioni, per ribellarsi alla disumanità, per chiedere una reale accoglienza e l’apertura delle frontiere a chi, a differenza nostra, non ha la possibilità di vivere la propria vita con dignità, sabato 6 marzo le piazze e i confini si riempiranno di persone solidali. Con i loro corpi e le loro presenze formeranno un ponte simbolico per ricordare che, in questo mondo, tutti meritano una vita degna di essere vissuta. Una lezione che Lorena Fornasir e Gian Andrea hanno insegnato bene nella loro attività di cura in piazza della Libertà, dove ogni sera si occupano di medicare i piedi piagati dei migranti appena arrivati oltre il confine. Azioni che dovrebbero essere sostenute e replicate, non contrastate. Azioni che ci ricordano che siamo tutti esseri umani.

Elenco delle città e delle piazze in cui si terrà il Ponte di Corpi: – Frontiera Claviere – Frontiera Euskadi / Francia – Trieste – Milano – Roma – Bologna – Palermo – Lecco – Vicenza – Monza – Gorizia – Minorca – Chiavenna – Catania – Marsiglia Referente: Federico Perrucci – Spoleto – Paestum / Salerno – Siracusa – Castelfranco Veneto.

Contatti: unpontedicorpi@gmail.com Francesco Cibati: 3457939226

La rete “Torino per Moria” fa proprio il manifesto e aderisce prolungando idealmente il Ponte di Corpi dalla Bosnia fino al confine tra Piemonte e Francia, dove i numerosi tentativi di attraversamento sono spesso respinti con brutalità, anche nei confronti di minori.

In particolare le donne della rete “Torino per Moria” si mettono in ascolto di altre donne lontane che, in un tacito mandato di dolore, consegnano a tutte/i la vita dei loro cari.

Accogliere e curare è mettere al mondo la vita ogni giorno: la cura per l’altro è il filo rosso che può tenere insieme, da una parte all’altra del mondo, i legami spezzati dalla guerra, dai disastri ambientali e dalla miseria. Per questo le donne di Torino per Moria dicono:

• NO alla violenza dei respingimenti che non consentono neppure la legittima presentazione delle domande di asilo

• NO al razzismo e alla discriminazione, che da sempre conosciamo

• SI al diritto insito in ogni corpo di potersi muovere e andare dove ritiene di poter vivere una vita degna.

Si stima che tra settembre e dicembre 2020 siano transitate alla frontiera italo-francese a Claviere oltre 4700 persone, giunte attraverso la rotta balcanica e quella del Mediterraneo, nella maggior parte provenienti dall’Afghanistan, dall’Iran, dal Pakistan e dall’Africa. Le persone migranti arrivano con bambini e donne, a volte incinte, stremate da anni di tentativi di passaggio ai confini bosniaci, croati e italiani: passano dal Piemonte per proseguire verso il Nord Europa in cerca di una vita dignitosa che vedono respinta.

Per aggiornamenti secondo l’ultimo Dpcm controllare la pagina Facebook di Torino per Moria. Al momento il ritrovo è previsto alle ore 12 a Claviere davanti alla chiesetta sulla via principale; alle 14 è previsto il collegamento con le altre piazze e confini italiani.

Da riforma.it

c.g.

Zona Disagio. Mônica e Marielle

Il 14 marzo 2018 Marielle Franco viene uccisa con una scarica di colpi di pistola a Rio de Janeiro. Sociologa e attivista per i diritti Lgbt, ha un sorriso sfacciato, forza, competenza, determinazione; è «negra, favelada, feminista, LGBT, anticapitalista. Uma gigante»come la ricorda la sua compagna, Mônica Tereza Benício. Ha soltanto 39 anni quando la ammazzano. È consigliera comunale a Rio e le sue denunce contro la violenza della polizia danno fastidio: relatrice per una commissione speciale che monitora l’intervento federale a Rio e la militarizzazione della sicurezza pubblica, non ha paura di parlare chiaro. Dopo, pare impossibile averla persa: il colpo è durissimo, la rabbia per il suo assassinio travolgente. Eppure il dolore non ferma chi la amava, sono in tanti e tante a chiedere che venga fatta giustizia, prima fra tutte sua moglie Mônica. 

Mônica che non si arrende, perché l’amore non è disgiunto dalla lotta, e oggi, due anni e mezzo dopo, ha vinto le elezioni municipali con il Psol (Partito Socialismo e Libertà) e con la forza di 23mila voti, la terza donna più votata a Rio, riprende il posto che hanno tolto a Marielle insieme alla vita.

«Candidarmi non è stata una decisione facile», dice, e si può bene immaginare. «È un impegno per la sua memoria, per tutto quello in cui abbiamo creduto, per i sogni che abbiamo condiviso». Un impegno che le ha fatto convogliare o luto na luta, il lutto nella lotta, «Per trasformare il mondo che ce l’ha portata via».

La luta principale oggi è contro Bolsonaro e la sua politica violenta, razzista e machista, per un Brasile che merita ben altro. Ma il successo di Mônica a Rio ci dice anche un’altra cosa: che ucciderci non basta a farci tacere, perché altre dopo di noi trasformeranno il dolore in rabbia e la rabbia in politica per le donne, per la comunità Lgbt, per gli sfruttati e per gli esclusi, ovunque.

Un grandioso segno di resistenza e speranza per questo 25 novembre, che non sia solo condanna di femminicidi e legittima richiesta di giustizia, ma anche testimonianza del cammino che le donne continuano a fare, ogni giorno, per cambiare il mondo che le discrimina, le violenta e le uccide.

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(Marielle Franco a Rio de Janeiro nel 2016, foto di Mídia NINJA)

Zona Disagio. Arcore, amore mio

di Claudio Geymonat

Sono forse un po’ deviato, ma vedere Patrizia De Blanck in televisione a me richiama sempre alla mente altre storie. Storie che sono tornate prepotentemente nei miei pensieri in questi giorni in cui l’intramontabile Silvio Berlusconi con una serie di telefonate alle trasmissioni di Fabio Fazio e Giovanni Floris ha compiuto, a dar retta alle cronache sdolcinate del giorno dopo, un ulteriore passo verso quel finale da Padre della Patria che l’ex cavaliere in fondo sogna da sempre. 

Il Quirinale è naufragato anni fa, ma un bell’ultimo giro di giostra da gran burattinaio non se lo vuole negare.

Oddio, la De Blanck a dire il vero c’entra proprio poco, se non nulla. Ma il caso ha voluto che il secondo marito della salottiera televisiva di cui sopra, l’amatissimo Giuseppe Drommi, sia stato il primo marito di Anna Fallarino.

E qui si aprono molti file sul nome legato a una tragica vicenda di cronaca. La Fallarino, sposata Drommi, a Cannes conosce il marchese Camillo Casati Stampa di Soncino, ricchissimo, ma ricchissimo davvero, proveniente da una delle più antiche famiglie nobili milanesi. Il Casati spenderà, si dice, un miliardo di lire del 1958!, per ottenere l’annullamento del matrimonio Fallarino-Drommi dalla Sacra Rota, e impalmare un anno dopo la donna, travolti da una passione irresistibile. La loro storia erotica sessuale, ricca di voyeurismo ed esibizionismo, sfociata nel 1970 nell’omicidio da parte del marchese di Anna Fallarino e di un giovane amante, prima di rivolgere l’arma contro se stesso, ci interessa qui soltanto per i risvolti economici seguenti.

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Zona Disagio. Cronache da Lesbo e Samos, Europa

C’è lockdown e lockdown

Sono passati due mesi da quando un incendio, la notte del 9 settembre, ha completamente distrutto il campo profughi di Moria, a Lesbo. Tredicimila persone sono scappate dalle fiamme riversandosi in strada, lasciandosi (di nuovo!) tutto alle spalle, perdendo le poche cose che possedevano e i documenti per la richiesta d’asilo, fragile filo che li legava all’Europa. Fuori, nella notte, mentre il fuoco sulla collina continuava a bruciare, hanno trovato ad attenderli i lacrimogeni della polizia, accorsa a contenere la fuga. 

Hanno vissuto per strada, nei cimiteri, con poca acqua e cibo portato dalle organizzazioni umanitarie, in attesa che le istituzioni locali ed europee decidessero di loro: quella che poteva essere un’opportunità per ripensare la tragica condizione dei richiedenti asilo bloccati nelle isole greche è stata invece l’ennesima conferma dell’indifferenza dell’Europa.

Un nuovo campo è stato montato in pochi giorni lungo la strada principale, a ridosso del mare ed esposto alle intemperie: è stato classificato come temporaneo, ma sembra ormai evidente che i circa settemila occupanti dovranno rassegnarsi a passare l’inverno lì, all’incrocio dei venti che in questa stagione soffiano forti, con il freddo, su un terreno che quando piove (l’abbiamo già visto) si allaga e diventa una piscina di fango. Non c’è acqua corrente, non ci sono fogne, i bagni chimici sono insufficienti e ancora – dopo due mesi – non c’è una doccia per lavarsi. 

Intanto, è stato chiuso dalle autorità il centro per persone vulnerabili di Pipka, uno dei pochi esempi virtuosi di accoglienza; i 74 occupanti sono stati trasferiti per il momento nel campo di Kara Tepe, lungo la strada principale, non lontano dal nuovo centro governativo.

Ora anche sulla Grecia è sceso un nuovo lockdown per contenere la pandemia e per chi vive nel campo significa una cosa sola: essere chiusi dentro, come in una prigione, ma da innocenti. Una plastica prefigurazione di quello che dovrebberoro diventare i nuovi campi profughi secondo le previsioni della nuova legge sull’immigrazione, voluta dal premier Kyriakos Mitsotakis ed entrata in vigore il 1° gennaio 2020.

Muore il figlio nella traversata verso Samos: incarcerato

Le cronache della frontiera ci pongono quotidianamente davanti a incredibili escalation di orrore. Sabato notte, il 7 novembre, è annegato al largo dell’isola di Samos un bambino di sei anni mentre tentava, insieme al padre e ad altre persone, di attraversare quel braccio di mare che separa la costa turca dalla Grecia. Il padre, un giovane afgano di 25 anni, è riuscito a sbarcare ed è stato subito arrestato dalle autorità con l’accusa di aver messo in pericolo la vita del figlio: se condannato, rischia fino a dieci anni di carcere.

Le stesse autorità che ignorano volutamente i respingimenti dei gommoni provenienti dalla Turchia oggi mettono in cella un padre disperato: le stesse autorità, greche ed europee, che chiudono gli occhi quando imbarcazioni guidate da uomini incappucciati, o la stessa Guardia Costiera, ributtano i migranti in acque turche con manovre pericolose e azzardate, non hanno remore a imprigionare un uomo sotto choc per la morte del figlio.

Intanto oggi, 11 novembre, un nuovo incendio ha colpito il campo profughi che accoglie circa quattromila persone. È il secondo in una settimana; altri due incendi dolosi erano stati appiccati allo stesso campo a settembre. 

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(foto: Stefano Stranges, controlli al nuovo campo profughi di Lesbo, settembre 2020)

Zona Disagio. In Algeria morto Bouregaa, simbolo e protagonista delle rivoluzioni del Paese

Ora Lakhdar Bouregaa potrà finalmente riposare. È morto il 4 novembre ad Algeri. Dopo una vita contro, sempre.

Nato nel 1933, nel 1956 si unisce al Fronte di Liberazione nazionale, che dal 1954 al 1962 combatte contro la presenza coloniale francese nella terribile guerra d’Algeria che tanti strascichi ha lasciato nelle relazioni fra Parigi e l’Africa.

Dopo l’indipendenza, è fra i fondatori del Fronte delle forze socialiste e viene eletto deputato alla prima Assemblea nazionale.

Di fronte all’avanzare di forze autoritarie e allo svanire delle istanze di libertà che avevano acceso tante speranze, sceglie di contrastare da subito Houari Boumedédiène, salito al potere nel 1965 con un colpo di stato.

Arrestato nel 1967, torturato a lungo, nel 1969 viene condannato a trent’anni di carcere ma liberato solo sei anni dopo, nel 1975.

Da allora continuerà a criticare i futuri presidenti: Chadli prima, l’eterno Bouteflika poi.

L’ultima stagione della sua vita lo rivede protagonista assoluto, unico filo rosso rimasto a far da collante fra i “vecchi” che avevano fatto la rivoluzione e i giovani che dal febbraio 2019 hanno invaso le strade delle città algerine per dire basta all’ennesimo tentativo di Bouteflika di rimanere al potere. Bouregaa in varie interviste e comizi manifesta un sostegno senza riserve all’Hirak, il grande movimento di protesta che scuote il paese. Manifestazioni di dimensioni enormi che appena tre mesi dopo, nell’aprile 2019, portano infine alle dimissioni di Bouteflika. Manifestazioni poi sedate con la violenza, ancora una volta, dagli anziani gerarchi, veri custodi dello Stato.

A giugno 2019 per Bouregaa si riaprono di nuovo le porte del carcere nonostante l’età, 86 anni, a seguito di dichiarazioni in cui accusa il generale Ahmed Gaïd Salah, il nuovo-vecchio uomo forte del regime, di aver già scelto il futuro presidente della Repubblica e di prepararsi ad allestire  elezioni farsa. Verrà rilasciato solo il 2 gennaio di quest’anno, insieme a vari altri attivisti dell’Hirak, dopo mesi di proteste internazionali.

cg

Zona disagio. Dalla Francia, buone notizie per migranti e solidali

Le frontiere sono il simbolo reale e allo stesso tempo politico della non accoglienza praticata dai Paesi più ricchi, dagli Stati Uniti all’Europa tutta fino all’Oceania, nella cieca illusione dei governanti di turno di bloccare oltre i propri steccati i 272 milioni di migranti internazionali che nel 2019 hanno lasciato le proprie abitazioni e lo Stato di origine, pari al 3,5% della popolazione mondiale. 

Dalla Francia in questi giorni sono giunte due notizie che vanno controcorrente e mostrano un volto diverso dei confini, volto di accoglienza e solidarietà.

La prima.

Oltre 40 mila firme in poche settimane hanno fatto tornare sui suoi passi il nuovo sindaco di Briançon, comune francese a pochi chilometri dal confine italiano piemontese, diventato in questi anni luogo di transito per le migliaia di persone che tentano di proseguire attraverso le Alpi il viaggio iniziato in Africa o in Medio Oriente. Nessuna chiusura dunque del Rifugio solidale che dal 2015, grazie al lavoro di tantissimi volontari, ha accolto, rifocillato, indirizzato, curato, più di diecimila persone alle prese con l’attraversata delle montagne.In una lettera del 26 agosto, infatti, il primo cittadino Arnaud Murgia aveva invitato l’associazione “Refuges solidaires” a liberare l’edificio, di proprietà dell’associazione intercomunale che federa i municipi della zona, «entro e non oltre il 28 ottobre». L’occupazione dei locali era consentita da una convenzione, scaduta a giugno, che il sindaco ora non vuole rinnovare.

«Grazie a ciascuna delle vostre voci – si legge nel comunicato stampa di“Refuges solidaires” – di fronte a questa massiccia mobilitazione, il sindaco di Briançon ha riconsiderato la sua decisione di sgomberare il Rifugio. La gente del posto continuerà quindi ad accogliere gli esiliati per tutto l’inverno. Questa è una prima vittoria per la mobilitazione! In vista della primavera, sono allo studio soluzioni di accoglienza sostenibili, con l’aiuto di ong e partner».

Va ricordato che grazie a queste informali e benefiche “pattuglie di confine” francesi allestite dai cittadini con le associazioni umanitarie Tous Migrants e Médecins du Monde, migliaia di rifugiati smarriti, esausti e in ipotermia sono stati soccorsi e messi al riparo. 

La seconda.

Il docente universitario di Nizza Pierre-Alain Mannoni è stato scagionato nei giorni scorsi da tutte le cause a suo carico. Nel 2016 era stato arrestato al casello autostradale di La Turbie, appena dopo Ventimiglia, in territorio francese, perché stava trasportando in auto tre donne eritree ferite. Il suo è stato uno dei primi casi, insieme a quello di Cédric Herrou, che hanno contribuito a portare ampio dibattito sul tema dell’accoglienza in questo angolo d’Europa.

L’attivista è stato assolto dalla Corte d’appello di Lione dopo tre anni di battaglie combattute nei tribunali. Già assolto a Nizza in primo grado nel gennaio 2017, l’insegnante era stato poi condannato a due mesi di carcere con sospensione della pena dalla Corte d’Appello di Aix-en-Provence e aveva dunque presentato ricorso alla Corte Suprema. L’alta corte aveva annullato la sua condanna nel dicembre 2018 e deferito il caso alla corte d’appello di Lione, sulla base delle nuove norme dettate dalla Corte Costituzionale francese. 

Nel luglio di quello stesso 2018, i giudici costituzionali avevano infatti sancito che il “principio di fraternità”, l’aiuto disinteressato al soggiorno irregolare «non è passibile di conseguenze giuridiche», e obbligato così il governo a riscrivere la legge specificando che, mentre l’assistenza all’ingresso nel territorio nazionale è ancora reato, l’aiuto alla circolazione interna e l’accoglienza non sono punibili se effettuati per scopi umanitari e senza compensazione.

cg

Zona Disagio. Siria, la strage infinita

«Perdonami se ti ho mandata a scuola, stamattina». Queste le parole che una madre disperata avrebbe pronunciato davanti al corpo della sua bambina, uccisa da una bomba mentre stava camminando verso la sua classe, la mattina del 4 novembre nella provincia di Idlib, in Siria. Secondo la denuncia dell’ong Save The Children, almeno altri tre bambini sono morti e decine di persone sono rimaste ferite da un attacco aereo, che le fonti locali identificano come russo. A Kafraya, a pochi chilometri da Idlib, è stata colpita anche una scuola elementare: poteva essere una strage. Il bombardamento è l’ennesimo episodio di violenza che si abbatte su una regione traumatizzata da quasi dieci anni di guerra e da una realtà quotidiana fatta di morti, terrore e miseria. Lungo la linea del fronte di Idlib, infatti, si concentra quel che resta dell’opposizione al regime di Bashar el-Assad e il cessate il fuoco dicharato a marzo fra Turchia e Siria non è bastato a spegnere le ostilità e la violenza indiscriminata sui civili. Come se non bastasse, sempre qui, dove un anno fa si suicidava, braccato dai militari americani, il sedicente califfo dell’Isis Abu Bakr al-Baghdadi, gli Stati Uniti il 22 ottobre hanno lanciato un’offensiva pesantissima con l’obiettivo di stroncare la riorganizzazione di Al-Qaeda nella zona.

Nelle ultime due settimane, per equilibri geopolitici che probabilmente travalicano i confini siriani, è aumentata notevolmente la tensione fra le forze governative, sostenute dalla Russia, e le varie milizie anti Assad, in parte almeno appoggiate dalla Turchia. Se l’accanimento contro la popolazione civile da entrambe le parti non è purtroppo una novità, come documenta un rapporto della Commissione d’inchiesta sulla Siria dell’Onu l’espansione dell’area di attacco anche in zone considerate sicure del governatorato di Idlib segnala un preoccupante aggravarsi della situazione nel nord-ovest siriano. Lo conferma lo staff di Medici Senza Frontiere, che ha dovuto operare persone ferite da attacchi aerei provenienti da un’area dove fino a qual momento non si erano verificati bombardamenti. 

Secondo gli ultimi dati raccolti dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, nel solo mese di ottobre il numero di vittime provocate dal conflitto in Siria ha raggiunto quota 600, di cui 104 civiliUn segnale di allarme, che si aggiunge alla crisi sanitaria dovuta alla pandemia e alla tragedia degli sfollati interni, un milione di persone che nel 2020 sono state costrette a lasciare le proprie case e a vivere in campi profughi esposti alle intemperie – nell’ultima settimana le forti piogge hanno allagato nove centri per sfollati – o spinte lungo la strada traditrice che porta verso un’Europa sempre più blindata. 

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(foto Stefano Stranges, “Nel quartier generale del Free Syrian Army”, Aleppo, luglio 2013)

Fermata obbligatoria in zona disagio

Oggi, nella regione in cui viviamo, inizia un nuovo lockdown. Chiusi bar, ristoranti, teatri, palestre e negozi ritenuti non indispensabili, studenti dai 12 anni in su a casa davanti ai pc, vietato andarsene in giro senza autorizzazione. Non ci si può vedere e studiare è di nuovo, sempre più acutamente, un privilegio. Le fabbriche restano aperte, però, ché bisogna produrre e spendere: il capitalismo trova nelle soluzioni per contenere la pandemia la sublime realizzazione del profetico “produci consuma crepa” dei CCCP.

Una fermata obbligatoria, e dobbiamo rispettarla; però, se siamo sufficientemente in salute e abbiamo ancora di che apparecchiare la tavola, abbiamo ancora la libertà di immaginare un’alternativa al livore da social (che peraltro sfianca di noia con la sua ripetitività) ed è l’attenzione a quel che va oltre noi e la chiusura a cui siamo (di nuovo) costretti. Un tentativo di giornalismo non troppo di moda in Italia ma a cui siamo tenacemente affezionati.

Proveremo allora in questo blog a darvi qualche notizia un po’ laterale, pochi commenti e più fatti, magari di quelli che non si vedono perché stanno nei coni d’ombra delle disuguaglianza, della discriminazione e dello squilibrio. Scriveremo di quel che non si vende ma che è essenziale: migrazioni, femminismi, lotte; anche di libri, perché ci piacciono e perché ce n’è bisogno. Vi chiediamo di rimanere con noi in una situazione di disagio per le ingiustizie, di essere inquieti, di rifiutare le semplificazioni della retorica e di non temere la complessità. Aiutateci, se credete, a ragionare. Regalateci foto o disegni, se vi va di contribuire. C’è persino una newsletter, se volete che questo blog vi affligga non dico ogni giorno ma comunque abbastanza spesso: per la vostra dose di disagio periodico, scrivete a amargipress@gmail.com e vi metteremo in lista.

A presto, allora. Niente Stati Uniti, domani iniziamo con una bella (pessima) notizia sulla guerra in Siria, che si vorrebbe finita ma che finita non è.

E, sì, Zona disagio è anche il titolo di un libro di Jonathan Franzen.

(Nella foto, Jimi Hendrix disegnato da Moebius, https://flashbak.com/moebius-illustrations-jimi-hendrix-voodoo-soup-419290/)

Lesbo e dintorni

Tutti gli aggiornamenti dal confine greco-turco

 

Lesbo, tra i dannati della terra

A Lesbo la situazione è a un punto di rottura, c’è il rischio di una pandemia e la violenza è senza controllo. I fascisti hanno preso il controllo della frontiera, intimidendo, picchiando e sfasciando macchine delle ong e giornalisti. Il fotoracconto di Federica Tourn e Stefano Stranges ospitato dal sito Q Code Mag, clicca qui

Inferno Moria


 

Dove i migranti conoscono l’inferno

La tragica condizione di Waled, Fatima, Ibrahim e degli altri 20mila migranti bloccati a Moria. Il  reportage da Lesbo di Federica Tourn con le foto di Stefano Stranges su Famiglia Cristiana in edicola dal 7 marzo 2020, qui sotto ora il testo integrale

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A Lesbo le ambulanze viaggiano senza sirene. Scivolano silenziose nel nero della notte sulle strade quasi deserte, furgoni con lucine a intermittenza, avanti e indietro dal campo di Moria all’ospedale del capoluogo Mytilene. Stridere di ruote, sbattere improvviso di portiere al pronto soccorso, urla degli operatori; a pochi passi due agenti di polizia fumano nervosamente mentre dall’ambulanza esce la barella con un ragazzo privo di conoscenza e sporco di sangue, un evidente squarcio alla gola. Inghiottito dalla sala urgenze con il suo seguito di infermieri, di lui non si saprà più nulla per giorni: è un numero su una domanda di asilo, un indesiderato, una grana – l’ennesima – per le istituzioni, che non sanno che farsene di questa gente arrivata sui barconi.

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