Jovan Divjak, il generale dei bambini

Dalla fine della guerra dell’ex Jugoslavia si prende cura di migliaia di orfani attraverso l’istruzione: intervista esclusiva

Di Federica Tourn, Eastwest

Il generale Jovan Divjak, oggi 82 anni, era militare di carriera nell’esercito di Belgrado quando nel ’92 scoppiò il conflitto in Bosnia, ma rifiutò di assecondare le mire espansionistiche di Milošević ed entrò invece a far parte dell’Armija, l’Armata della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina, una forza multinazionale a difesa del paese che si era appena costituito come stato indipendente. Lui, serbo, rimase a Sarajevo come comandante della difesa territoriale della capitale assediata proprio dai serbi di Ratko Mladić, lo stesso che l’11 luglio del ’95 si rese responsabile del genocidio dei musulmani di Srebrenica. Spirito libero, il generale Divjak non ha mai smesso di difendere, con il suo impegno umanitario e la sua testimonianza, una società multiculturale che il mondo non aveva voluto riconoscere né sostenere, annegandola in una narrazione di impossibile coesistenza fra popoli e religioni diverse. Un odio etnico che non esisteva ma fu creato ad arte con una propaganda nazionalista funzionale al potere.

Il paese è ancora spaccato nelle due entità decise a Dayton nel ’95, la Republica Sprska e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina. La divisione fra le tre etnie – serbi, croati e bosgnacchi, i musulmani bosniaci – è sempre molto forte?

La prima cosa che ci separa è l’educazione: Marx sosteneva che la religione è l’oppio dei popoli ma io oggi insisto nel dire che l’educazione è l’oppio dei bambini. Agli studenti della Republika Sprska non dicono che il conflitto è iniziato con l’attacco deliberato dei serbi ma raccontano che si è trattato di guerra civile e che a Srebrenica non c’è stato nessun genocidio; gli studenti della Federazione imparano invece che la Bosnia ha subito l’aggressione serba e sanno tutto del genocidio ma non dei crimini commessi dalla polizia e dall’esercito della Federazione contro serbi e croati. Le scuole in diversi cantoni della Federazione sono divise, hanno programmi totalmente diversi e i ragazzi non si incontrano nemmeno. Il problema in ogni caso inizia in famiglia: è a casa infatti che i bambini imparano a lavarsi le mani o a salutare, imparano la differenza fra il bene e il male e anche che i nemici sono i cetnici da una parte e gli ustascia e i mujaheddin dall’altra. La scuola in questo senso arriva tardi, quando il danno è già fatto.

Come racconta anche nel suo libro Sarajevo mon amour, lei ha voluto provare lo stesso a dare una possibilità ai ragazzi: durante l’assedio, nel 1994, per aiutare gli orfani di guerra ha fondato l’associazione “L’istruzione costruisce la Bosnia”, che a luglio ha festeggiato i 25 anni. Ad oggi sono stati sostenuti ben 58mila bambini, con un investimento di oltre sei milioni di euro. Che cosa prova ad aver raggiunto questo traguardo?

Non credevo che l’associazione sarebbe durata tanto: lavorare con i bambini è bello ma non è semplice. Oggi abbiamo pochi studenti che provengono dalla Republika Sprska ma molti rom; quello che mi colpisce e mi commuove è che anche se non hanno possibilità di governare, a causa della nostra Costituzione che esclude le minoranze, da adulti si impegnano lo stesso in politica. Qui funziona così: anche i ragazzi che fanno parte dei tre popoli costitutivi sono costretti ad adeguarsi al fatto che per fare carriera devono diventare membro di un partito. Il dramma è che in questo paese non si combina niente se non si segue la politica degli opposti estremisti.

Il processo di riconciliazione è ancora in alto mare, quindi.

Direi piuttosto che deve ancora cominciare. Prendete Sarajevo: è più divisa di Mostar. Dicono che è una capitale multiculturale, che è una piccola Gerusalemme, ma non è vero; ci sono soltanto 65mila serbi che vivono a Sarajevo Est (su una popolazione di 670mila abitanti, ndr), al 90 per cento la capitale è musulmana e tutto è in mano ai musulmani: centri culturali, scuole, teatri. Prima della guerra, invece, i bosgnacchi erano il 48%, i serbi il 33% e i croati il 17% degli abitanti.

La “pulizia etnica” ha segnato il territorio: a Banja Luka, oggi capitale della Republika Sprska, prima della guerra trovavi il 50% di serbi e il 33% di bosgnacchi; oggi i serbi sono più del 90%  mentre croati e bosgnacchi insieme non arrivano all’8%. Nella valle della Sava c’erano 500mila cattolici, oggi sono appena 5mila. Il problema viene da Dayton, che ha cristallizzato la divisione in tre etnie. Tutto è diviso in tre, il governo non funziona, i parlamentari serbo bosniaci sono secessionisti e non vogliono votare l’ingresso nell’Unione europea.

Che ruolo gioca l’Europa in questo quadro?

L’Europa non sa che cosa fare di se stessa. Giudicate sempre quello che succede nei Balcani ma la Bosnia è un’Europa in piccolo: quel che accade da noi è soltanto un riflesso di quello che vedete a casa vostra. In Italia, per esempio, non siete divisi? Non c’è la destra al potere? Se sulla questione migranti la linea la detta Orbán per me questo fenomeno ha un solo nome, ed è fascismo.

Che peso ha oggi la religione in Bosnia? 

Secondo l’ultimo censimento del 2013, il 77% dei cittadini della Federazione si è riconosciuto come musulmano e solo il 64% come bosgnacco, segno che l’appartenenza religiosa ha un peso maggiore rispetto alla nazionalità. Prima non era così: sotto il regime di Tito non c’era persecuzione, chiunque poteva praticare liberamente la propria fede. Certo, se non eri iscritto al partito comunista non facevi carriera ma oggi se non fai parte di un partito serbo, croato o musulmano allo stesso modo non puoi essere direttore di scuola o teatro. Oggi il cambiamento è determinato non tanto da un nuovo fervore religioso quanto dagli interessi della politica. In Bosnia continuano a costruire moschee – prima degli anni ’90 a Sarajevo ce n’erano 88, oggi sono 120 – ma i fedeli, a parte il periodo del ramadàn, non si vedono. Ed è così anche per ortodossi e cattolici. La retorica sulla religione è cominciata con la guerra, i musulmani preparavano i soldati ad andare a sparare gridando Allah Akbar. La verità è che la religione è pagata dalla politica e le diverse comunità hanno forti legami con l’estero: i serbo bosniaci sono appoggiati dalla Russia e da Belgrado, i croato bosniaci da Zagabria e dai paesi cattolici e i bosgnacchi dal canto loro non sanno che fare. Subiamo le pressioni della Turchia, è vero, ma Erdoğan investe molto di più in Serbia che in Bosnia Erzegovina. Ho sempre sostenuto che l’errore del presidente Izetbegović, a partire dagli anni della guerra, è stato quello di legarsi più con l’est che con l’ovest, con il risultato che ha intessuto un legame troppo fragile con l’Europa. Un problema che permane anche adesso.

Lei crede in un prossimo ingresso del paese nell’Unione Europea?

È una questione molto complicata: da un lato Macron e Merkel sostengono saggiamente che è troppo pericoloso abbandonare la Bosnia al proprio destino, dall’altro non possiamo nasconderci che il nostro paese non è pronto, è instabile e ancora non si è consolidato. L’Europa d’altronde ha una grande responsabilità per quello che è successo in Bosnia. Il governo italiano, per esempio, durante la guerra è sempre rimasto in contatto con la Serbia e non con la Bosnia Erzegovina; Susanna Agnelli da ministra degli Esteri è andata spesso a Belgrado e mai a Sarajevo. Ma il problema, oggi, come dicevo, è anche che i parlamentari dell’entità serba si rifiutano di votare per l’Europa e chiedono la separazione dal resto del paese, fomentando l’ultranazionalismo in crescita.

Il paese rischia davvero di spaccarsi di nuovo 25 anni dopo?

Se è successo in Kosovo può succedere anche con la Republika Sprska. La divisione è sostenuta da Serbia e Croazia, ognuna per la sua parte; soltanto l’Europa può fermare questo processo ma deve intervenire duramente contro Dodik e non tollerare ancora le sue uscite estremiste. Il presidente dell’entità serba non si fa nessun problema a fare propaganda per terrorizzare i cittadini e metterli contro i musulmani: tutti i giorni in Bosnia si vive una guerra verbale creata ad arte per aizzare gli uni contro gli altri. Non si parla mai di verità, giustizia e riconciliazione: è ancora tutto da fare.

La Republika Sprska comincia a trecento metri da casa sua: oltrepassa mai quel confine invisibile?

Mai, in Republika Sprska sono considerato persona non gradita. Lo stesso in Serbia: Belgrado ha anche cercato di farmi arrestare nel 2011 mentre ero in viaggio in Austria e oggi per andare in Italia mi tocca passare da Istanbul. A proposito, lo sapete che è morta Mirjana Marković, la moglie di Milošević? Me ne rallegro. Non ha mai smesso di sostenere il marito, fino alla fine.

Lo scorso marzo Radovan Karadžić è stato condannato in appello all’ergastolo dal Tribunale internazionale per la ex Jugoslavia per il genocidio di Srebrenica e le atrocità commesse quando era leader dei serbo bosniaci. Un segnale positivo?

Guardi, la prima a essere condannata dal Tribunale internazionale dell’Aja è stata Biljana Plavšić, presidente della Republika Sprska dopo Karadžić: oggi è libera. E così molti altri. Ci chiedono sovente se le condanne sono servite a qualcosa, ma la verità è che non hanno cambiato niente. Molte strade nella Republika Sprska sono dedicate a criminali di guerra: le scuole, le case degli studenti portano i nomi di Karadžić o di Mladić. Da noi in Federazione trovi ancora vie intitolate agli ustascia della seconda guerra mondiale. Questa è la Bosnia.

Il presidente Dodik ha negato il genocidio di Srebrenica, disconoscendo i risultati dell’inchiesta di una Commissione istituita nel 2004 proprio nella Republika Sprska che aveva riconosciuto formalmente l’eccidio. Siamo al revisionismo?

Dodik ha di recente nominato una nuova Commissione che stabilisca “la verità”, il che per lui significa assolvere i serbi da ogni responsabilità. Al di là dei confini abbiamo come presidente della Serbia Aleksandar Vučićl’ex portavoce di Milošević, che a proposito del genocidio ha detto «per ogni serbo ucciso dovranno morire cento musulmani». È chiaro che di Srebrenica bisogna riparlare e fare un’analisi accurata, che renda giustizia a tutti: se da un lato dobbiamo impedire che venga negato il genocidio, dall’altro dobbiamo anche ricordare che lì non sono morti soltanto musulmani, perché anche mille serbi sono stati ammazzati a Srebrenica durante la guerra.

In Bosnia ci sono persone che si sono rese responsabili di azioni terribili durante la guerra e tuttavia oggi hanno un ruolo pubblico o vivono tranquillamente inserite nella società, come nel caso di Naser Orić, il “difensore di Srebrenica”, ex comandante musulmano dell’esercito bosniaco. Che cosa ne pensa?

Orić per molti è un eroe ed è sostenuto dal Sda, il Partito d’azione democratica, il principale partito nazionalista islamico e conservatore di Bosnia, ma le donne di Srebrenica, che lo conoscono bene, non lo amano: si è macchiato di crimini orribili, ha perfino violentato delle musulmane quando era a Srebrenica. Diceva che andava in giro a rimediare provviste per i bosgnacchi ma nel contempo ha bruciato case, ammazzato e stuprato moltissime persone. Formalmente nel 2017 è stato assolto dal Tribunale di Sarajevo dall’accusa di crimini di guerra ma lui sa bene di cosa è responsabile.

Perché Orić, che era a capo della difesa di Srebrenica, è stato allontanato dalla città proprio nel momento di maggiore pericolo, poco prima che arrivassero le truppe di Mladić e sterminassero più di 8mila musulmani?

Non è successo a luglio, al momento della tragedia, ma diversi mesi prima. Orić è stato richiamato a Sarajevo dallo Stato maggiore dell’Armija già nel marzo 1995 perché non voleva collaborare con la polizia e il governo locale e inoltre approfittava del suo ruolo, terrorizzando la popolazione. Io ero nello Stato maggiore e so bene come sono andate le cose. Hanno detto che se fosse stato a Srebrenica al momento dell’arrivo di Mladić l’avrebbe salvata; ma quello che ha condannato l’enclave non è stata certo l’assenza di Orić quanto il mancato intervento della Nato contro i serbi. La verità è che il generale Bernard Janvier, all’epoca responsabile dell’Unprofor, la Forza di protezione delle Nazioni Unite, aveva chiesto ripetutamente un intervento dell’aviazione che non è mai arrivato. Se ci fosse stato, non avremmo avuto il genocidio. 

La responsabilità è dell’Onu, quindi.

Sì. E mi chiedo anche: perché 1500 soldati dell’esercito bosniaco si sono ritirati da Srebrenica proprio nel luglio ’95 in direzione di Tuzla senza combattere? Perché non sono rimasti a difendere Srebrenica?

Non l’avete appurato dopo la guerra?

Qualcuno disse che in quell’occasione il presidente Izetbegović aveva barattato Srebrenica con i villaggi intorno a Sarajevo controllati dai serbi. Secondo altre voci, Izetbegović aveva avvertito il presidente degli Stati Uniti che senza un intervento americano ci sarebbero stati 7mila morti, cosa che poi effettivamente accadde. Non lo so qual è la verità. Quello che mi colpisce è che i soldati dell’esercito bosniaco se ne sono andati abbandonando i loro famigliari. Non lo so, di sicuro so soltanto che decisero di richiamare Orić perché aveva terrorizzato gli abitanti di Srebrenica. Ancora oggi non è chiaro come si sono svolte davvero le cose. Il fatto è che in guerra succede come quando due divorziano: ognuno ha la sua storia. 

Foto di Paolo Ciaberta

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